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Aggiornato: 19 min 13 sec fa

Ai partecipanti alla Plenaria del Dicastero per la Dottrina della Fede (26 gennaio 2024)

Ven, 26/01/2024 - 11:00

Signori Cardinali,
cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
fratelli e sorelle!

Vi do il benvenuto al termine della vostra Assemblea Plenaria. Saluto il Prefetto e gli altri Superiori, gli Officiali e i Membri del Dicastero: a tutti la mia riconoscenza per il vostro prezioso lavoro.

Come stabilisce la Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium, il «compito del Dicastero per la Dottrina della Fede è aiutare il Romano Pontefice e i Vescovi nell’annuncio del Vangelo in tutto il mondo, promuovendo e tutelando l’integrità della dottrina cattolica sulla fede e la morale, attingendo al deposito della fede e ricercandone anche una sempre più profonda intelligenza di fronte alle nuove questioni» (art. 69).

Proprio per raggiungere tali fini, già con il motu proprio Fidem servare (11 febbraio 2022) sono state create all’interno del Dicastero due Sezioni distinte: quella Dottrinale e quella Disciplinare. Nella lettera che ho inviato al Prefetto il 1° luglio 2023, in occasione della sua nomina, ho fatto riferimento a tale provvedimento per definire meglio il suo incarico e la missione attuale del Dicastero. Da un lato, ho sottolineato l’importanza della presenza di professionisti competenti nell’ambito della Sezione Disciplinare, per assicurare attenzione e rigore nell’applicazione della legislazione canonica vigente, in particolare nella gestione dei casi di abusi su minori da parte di chierici, e promuovere iniziative di formazione canonica per gli Ordinari e per gli operatori del diritto. Dall’altro lato, ho insistito sull’urgenza di dare maggiore spazio e attenzione all’ambito proprio della Sezione Dottrinale, dove non mancano teologi preparati e personale qualificato, anche per il lavoro nell’Ufficio Matrimoniale e nell’Archivio, di cui ricordo il 25° anniversario di apertura al pubblico ad opera di San Giovanni Paolo II e del Cardinale Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione, nell’imminenza del Grande Giubileo dell’Anno 2000.

Il Dicastero si vede così impegnato nell’ambito dell’intelligenza della fede di fronte al cambiamento d’epoca che caratterizza il nostro tempo. In tale direzione, vorrei condividere con voi alcuni pensieri, che raccolgo attorno a tre parole: sacramenti, dignità e fede.

Sacramenti. In questi giorni avete riflettuto sul tema della validità dei Sacramenti. La vita della Chiesa si nutre e cresce grazie ad essi. Per tale ragione, ai ministri è richiesta una particolare cura nell’amministrarli e nel dischiudere ai fedeli i tesori di grazia che comunicano. Mediante i Sacramenti, i credenti diventano capaci di profezia e di testimonianza. E il nostro tempo ha bisogno con particolare urgenza di profeti di vita nuova e di testimoni di carità: amiamo dunque e facciamo amare la bellezza e la forza salvifica dei Sacramenti!

La seconda parola: dignità. In quanto cristiani, non dobbiamo stancarci di insistere «sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza» (Esort. ap. Laudate Deum, 39). So che state lavorando a un documento su questo argomento. Auspico che possa aiutarci, come Chiesa, a essere sempre vicini «a tutti coloro che, senza proclami, nella vita concreta di ogni giorno, lottano e pagano di persona per difendere i diritti di chi non conta» (Angelus, 10 dicembre 2023) e fare sì che, «di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole» (Lett. enc. Fratelli tutti, 6).

La terza parola è fede. In proposito vorrei ricordare due eventi: il decimo anniversario, da poco compiuto, dell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium e l’ormai prossimo Giubileo, nel quale rinnoveremo la fede in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, speranza della storia e del mondo. Non possiamo però nasconderci che in estese aree del pianeta la fede – come ebbe a dire Benedetto XVI – «non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata» (Lett. ap. in forma di Motu proprio Porta fidei, 2). È tempo, perciò, di riflettere nuovamente e con maggiore passione su alcuni temi: l’annuncio e la comunicazione della fede nel mondo attuale, specialmente alle giovani generazioni; la conversione missionaria delle strutture ecclesiali e degli agenti pastorali; le nuove culture urbane, con il loro carico di sfide ma anche di inedite domande di senso; infine e soprattutto, la centralità del kerigma nella vita e nella missione della Chiesa.

Qui è atteso un aiuto da parte del Dicastero: “custodire la fede” si traduce oggi in un impegno di riflessione e di discernimento, perché l’intera comunità si adoperi a una reale conversione pastorale e missionaria kerigmatica, che potrà aiutare anche il cammino sinodale in corso. Ciò che per noi è essenziale, più bello, più attraente e allo stesso tempo più necessario è la fede in Cristo Gesù. Tutti insieme, a Dio piacendo, la rinnoveremo solennemente nel corso del prossimo Giubileo e ciascuno di noi è chiamato ad annunciarla a ogni uomo e donna della terra. Questo è il compito fondamentale della Chiesa, al quale ho dato voce proprio in Evangelii gaudium.

In tale contesto di evangelizzazione accenno pure alla recente Dichiarazione Fiducia supplicans. L’intento delle “benedizioni pastorali e spontanee” è quello di mostrare concretamente la vicinanza del Signore e della Chiesa a tutti coloro che, trovandosi in diverse situazioni, chiedono aiuto per portare avanti – talvolta per iniziare – un cammino di fede. Vorrei sottolineare brevemente due cose: la prima è che queste benedizioni, fuori di ogni contesto e forma di carattere liturgico, non esigono una perfezione morale per essere ricevute; la seconda, che quando spontaneamente si avvicina una coppia a chiederle, non si benedice l’unione, ma semplicemente le persone che insieme ne hanno fatto richiesta. Non l’unione, ma le persone, naturalmente tenendo conto del contesto, delle sensibilità, dei luoghi in cui si vive e delle modalità più consone per farlo.

Carissimi, vi rinnovo la gratitudine per il vostro servizio e vi incoraggio ad andare avanti con l’aiuto del Signore. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

Ai membri della Commissione mista internazionale per il Dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali; e ai Partecipanti alla Visita di studio annuale di giovani sacerdoti e monaci delle Chiese ortodosse orientali (26...

Ven, 26/01/2024 - 10:30

Carissimi in Cristo,

«a voi grazia e pace in abbondanza!» (1 Pt 1,2). Con queste parole dell’Apostolo Pietro vi saluto cordialmente, riconoscente a Sua Grazia Kyrillos per le sue cortesi parole e a tutti voi per la presenza e per l’impegno a camminare insieme nei sentieri dell’unità, che sono anche sentieri di pace. Sostenuti dai santi e dai martiri che dal cielo uniti ci accompagnano, preghiamo e adoperiamoci senza stancarci per la comunione e per contrastare la carestia di pace che sta attraversando tante parti della terra, anche diverse regioni da cui voi provenite.

Oggi è per me una gioia doppia accogliervi, perché in questo ventesimo anniversario della vostra Commissione avete voluto essere accompagnati da una delegazione di giovani sacerdoti e monaci delle Chiese ortodosse orientali. Così la presenza dei giovani nutre la speranza e la preghiera guida il cammino! Attraverso di voi vorrei far giungere il più caloroso saluto ai miei venerabili e cari Fratelli, Capi delle Chiese ortodosse orientali, alcuni dei quali mi hanno onorato con le loro visite lo scorso anno: penso a Sua Santità Tawadros, a Sua Santità Baselios Marthoma Mathews III e a Sua Santità Aphrem.

Queste visite sono preziose, perché permettono al “dialogo della carità” di andare di pari passo con il “dialogo della verità” che la vostra Commissione porta avanti. Sin dai primi tempi della Chiesa tali visite, così come lo scambio di lettere, di delegazioni e di doni, sono stati segni e mezzi di comunione; la vostra Commissione lo ha notato nel documento intitolato «L’esercizio della comunione nella vita della Chiesa primitiva e le sue ripercussioni sulla nostra ricerca di comunione oggi». Questi gesti, radicati nel riconoscimento dell’unico Battesimo, non sono semplici atti di cortesia o di diplomazia, ma hanno un significato ecclesiale e possono essere considerati dei veri e propri loci theologici. Come ha affermato San Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint: «Il riconoscimento della fraternità [...] va ben al di là di un atto di cortesia ecumenica e costituisce una basilare affermazione ecclesiologica» (n. 42).

In questo senso, sono convinto che il “dialogo della carità” non deve essere inteso solo come una preparazione al “dialogo della verità”, ma come una “teologia in azione”, capace di aprire nuove prospettive al cammino delle nostre Chiese. In un momento in cui, grazie a Dio, i rapporti tra di noi si intensificano, mi sembra bello rileggere il nostro tessuto di relazioni sviluppando una “teologia del dialogo nella carità”.

Carissimi, la vostra Commissione ha tenuto il suo primo incontro al Cairo nel gennaio del 2004. Da allora si è riunita quasi ogni anno e ha adottato tre importanti documenti di natura ecclesiologica, che riflettono la ricchezza delle tradizioni cristiane da voi rappresentate: copta, siriaca, armena, malankarese, etiopica, eritrea e latina. Il vostro dialogo, che riunisce tanta ricchezza, si è impreziosito nel pensare l’unità nella diversità, come testimonia il primo documento che avete elaborato: in esso si dice che, «radicandosi nella diversità dei contesti culturali, sociali e umani, la Chiesa assume diverse espressioni teologiche della stessa fede e diverse forme di discipline ecclesiastiche, riti liturgici e patrimoni spirituali in ogni parte del mondo. Questa ricchezza mostra in modo ancora più splendido la cattolicità dell’unica Chiesa» (Natura, costituzione e missione della Chiesa, 2009, n. 20).

Un’altra caratteristica del vostro dialogo è la costante preoccupazione pastorale, illustrata dall’ultimo documento su «I Sacramenti nella vita della Chiesa». A questo proposito, merita di proseguire la recente iniziativa di organizzare visite annuali e reciproche di studio per giovani sacerdoti e monaci. Quattro delegazioni di giovani sacerdoti e monaci ortodossi orientali sono già venute a Roma per meglio conoscere la Chiesa cattolica, su invito del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, che ringrazio, e una delegazione di giovani presbiteri cattolici si è recata ad Etchmiadzin lo scorso anno su invito della Chiesa apostolica armena. Coinvolgere i giovani nell’avvicinamento delle nostre Chiese è un segno dello Spirito, che ringiovanisce la Chiesa nell’armonia, ispirando vie di comunione, donando saggezza alle nuove generazioni e profezia agli anziani (cfr Gl 3,1). Prosegua nel segno dello Spirito questo “dialogo della vita”! E non dimentichiamo che l’armonia la fa lo Spirito Santo.

Dialogo della carità, dialogo della verità, dialogo della vita: tre modi inseparabili di procedere nel cammino ecumenico che la vostra Commissione promuove da vent’anni. Vent’anni: è l’età della giovinezza, quella in cui si maturano le scelte decisive. Che questo anniversario sia allora l’occasione per lodare Dio per il percorso compiuto, facendo memoria grata di quanti vi hanno contribuito attraverso la competenza teologica e la preghiera, e possa pure rinnovare la convinzione che la piena comunione tra le nostre Chiese non solo è possibile, ma urgente e necessaria «perché il mondo creda» (Gv 17,21).

E, poiché la fase attuale del vostro dialogo riguarda la Vergine Maria nell’insegnamento e nella vita della Chiesa, vi propongo di affidare il vostro lavoro a lei, la Santa Madre di Dio e Madre nostra. Possiamo anche stavolta invocarla insieme con le parole di una preghiera antica, una preghiera stupenda che ci accomuna, chiamata in latino Sub tuum praesidium, e che si trova nei vostri libretti. Preghiamo la Madre di Dio:

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta! Amen.

Alla Delegazione della Rete Mondiale di Preghiera del Papa (26 gennaio 2024)

Ven, 26/01/2024 - 10:00

Vi ringrazio molto per la visita. Apprezzo il lavoro che svolgete, che è ecclesiale ed è nato in seno alla Compagnia di Gesù. Nel lavoro apostolico di un fedele, di un diacono, di un sacerdote, di un consacrato, di una consacrata, di un vescovo, se lo si porta avanti in modo corretto, si sente fortemente il bisogno della preghiera e dell’intercessione. L’azione, anche se apostolica, senza preghiera, è solo imprenditoriale. Ciò che dà senso all’apostolato è la preghiera. Mi ha sempre colpito molto quello che Pietro disse agli apostoli dopo aver istituito i diaconi. Disse loro: “e a noi” — cioè ai vescovi — resta “dedicarci alla preghiera e all’annuncio della Parola” (cfr. At 6, 4). Ossia, il primo dovere di un vescovo è pregare. Primo dovere di un cristiano è pregare, la preghiera. Altrimenti corriamo il rischio di diventare un’istituzione puramente naturale, mondana, con un lavoro di tipo politico.

Per questo vi ringrazio per quello che fate per sostenere nella Chiesa — nei laici e anche nelle persone consacrate od ordinate —, questa mistica di preghiera. Grazie allora per quello che fate.

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 21, venerdì 26 gennaio 2024, p. 6.

Solennità della Conversione di San Paolo Apostolo - Celebrazione dei Secondi Vespri (25 gennaio 2024)

Gio, 25/01/2024 - 17:30

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, il dottore della Legge, sebbene si rivolga a Gesù chiamandolo «Maestro», non vuole lasciarsi istruire da lui, ma «metterlo alla prova». Una falsità ancora più grande emerge però dalla sua domanda: «Che devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25). Fare per ereditare, fare per avere: ecco una religiosità distorta, basata sul possesso anziché sul dono, dove Dio è il mezzo per ottenere ciò che voglio, non il fine da amare con tutto il cuore. Ma Gesù è paziente e invita quel dottore a trovare la risposta nella Legge di cui era esperto, la quale prescrive: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27).

Allora quell’uomo, «volendo giustificarsi», pone un secondo interrogativo: «E chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Se la prima domanda rischiava di ridurre Dio al proprio “io”, questa cerca di dividere: dividere le persone in chi si deve amare e in chi si può ignorare. E dividere non è mai da Dio: è dal diavolo, che è  divisore. Gesù, però, non replica facendo teoria, ma con la parabola del buon samaritano, con una storia concreta, che chiama in causa anche noi. Perché, cari fratelli e sorelle, a comportarsi male, con indifferenza, sono il sacerdote e il levita, i quali antepongono ai bisogni di chi soffre la tutela delle loro tradizioni religiose. A dare senso alla parola “prossimo” è invece un eretico, un Samaritano, perché si fa prossimo: prova compassione, si avvicina e teneramente si china sulle ferite di quel fratello; si prende cura di lui, indipendentemente dal suo passato e dalle sue colpe, e lo serve con tutto sé stesso (cfr Lc 10,33-35). Ciò permette a Gesù di concludere che la domanda corretta non è “Chi è il mio prossimo?”, ma: “Io mi faccio prossimo?” Solo questo amore che diventa servizio gratuito, solo questo amore che Gesù ha proclamato e vissuto, avvicinerà i cristiani separati gli uni agli altri. Sì, solo questo amore, che non torna sul passato per prendere le distanze o puntare il dito, solo questo amore che in nome di Dio antepone il fratello alla ferrea difesa del proprio sistema religioso, solo questo amore ci unirà. Prima il fratello, dopo il sistema.

Fratelli e sorelle, tra di noi non dovremmo mai porci la domanda “chi è il mio prossimo?”. Perché ogni battezzato appartiene allo stesso Corpo di Cristo; e di più, perché ogni persona nel mondo è mio fratello, mia sorella, e tutti componiamo la “sinfonia dell’umanità”, di cui Cristo è primogenito e redentore. Come ricorda sant’Ireneo, che ho avuto la gioia di proclamare “Dottore dell’unità”, «chi ama la verità non deve lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né immaginare che uno sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro l’artefice e il creatore dell’altro […], ma deve pensare che lo ha fatto uno solo» (Adv. haer. II, 25, 2). Non dunque “chi è il mio prossimo?”, ma “io mi faccio prossimo?” Io e poi la mia comunità, la mia Chiesa, la mia spiritualità, si fanno prossime? O restano barricate in difesa dei propri interessi, gelose della loro autonomia, rinchiuse nel calcolo dei propri vantaggi, intavolando rapporti con gli altri solo per ricavarne qualcosa? Se così fosse, non si tratterebbe solo di sbagli strategici, ma di infedeltà al Vangelo.

Che devo fare per ereditare la vita eterna?”: così era cominciato il dialogo tra il dottore della Legge e Gesù. Ma oggi anche questa prima domanda viene ribaltata grazie all’Apostolo Paolo, di cui celebriamo, nella Basilica a lui dedicata, la conversione. Ebbene, proprio quando Saulo di Tarso, persecutore dei cristiani, incontra Gesù nella visione di luce che lo avvolge e gli cambia la vita, gli chiede: «Che devo fare, Signore?» (At 22,10). Non “che devo fare per ereditare?”, ma “che devo fare, Signore?”: il Signore è il fine della richiesta, la vera eredità, il sommo bene. Paolo non cambia vita sulla base dei suoi obiettivi, non diventa migliore perché realizza i suoi progetti. La sua conversione nasce da un capovolgimento esistenziale, dove il primato non appartiene più alla sua bravura di fronte alla Legge, ma alla docilità nei riguardi di Dio, in una totale apertura a ciò che Lui vuole. Non alla sua bravura ma alla sua docilità: dalla bravura alla docilità. Se Lui è il tesoro, il nostro programma ecclesiale non può che consistere nel fare la sua volontà, nell’andare incontro ai suoi desideri. E Lui, la notte prima di dare la vita per noi, ha ardentemente pregato il Padre per tutti noi, «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Ecco la sua volontà.

Tutti gli sforzi verso la piena unità sono chiamati a seguire lo stesso percorso di Paolo, a mettere da parte la centralità delle nostre idee per cercare la voce del Signore e lasciare iniziativa e spazio a Lui. L’aveva ben compreso un altro Paolo, grande pioniere del movimento ecumenico, l’Abbé Paul Couturier, il quale pregando era solito implorare l’unità dei credenti “come Cristo la vuole”, “con i mezzi che Lui vuole”. Abbiamo bisogno di questa conversione di prospettiva e anzitutto di cuore, perché, come affermò sessant’anni fa il Concilio Vaticano II: «Non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione» (Unitatis redintegratio, 7). Mentre preghiamo insieme riconosciamo, ciascuno a partire da sé stesso, che abbiamo bisogno di convertirci, di permettere al Signore di cambiarci il cuore. Questa è la via: camminare insieme e servire insieme, mettendo la preghiera al primo posto. Infatti, quando i cristiani maturano nel servizio di Dio e del prossimo, crescono anche nella comprensione reciproca, come dichiara ancora il Concilio: «Quanto infatti più stretta sarà la loro comunione col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, tanto più intima e facile potranno rendere la fraternità reciproca» (ibid).

Per questo siamo qui stasera da diversi Paesi, da diverse culture e tradizioni. Sono riconoscente a Sua Grazia Justin Welby¸ Arcivescovo di Canterbury, al Metropolita Policarpo, in rappresentanza del Patriarcato Ecumenico, e a tutti voi, che rendete presenti molte comunità cristiane. Rivolgo un saluto speciale ai membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, che celebrano il XX anniversario del loro cammino, e ai Vescovi cattolici e anglicani che partecipano all’incontro della Commissione internazionale per l’Unità e la Missione. È bello che oggi con il mio fratello, l’Arcivescovo Justin, possiamo conferire a queste coppie di Vescovi il mandato di continuare a testimoniare l’unità voluta da Dio per la sua Chiesa nelle rispettive regioni, andando avanti insieme «a diffondere la misericordia e la pace di Dio in un mondo bisognoso» (Appello dei vescovi IARCCUM, Roma 2016). Saluto anche gli studenti borsisti del Comitato per la Collaborazione Culturale con le Chiese ortodosse del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e i partecipanti alle visite di studio organizzate per giovani sacerdoti e monaci delle Chiese ortodosse orientali, e per gli studenti dell’Istituto Ecumenico di Bossey del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Insieme, come fratelli e sorelle in Cristo, preghiamo con Paolo dicendo: “Che cosa dobbiamo fare, Signore?”. E nel porre la domanda c’è già una risposta, perché la prima risposta è la preghiera. Pregare per l’unità è il primo compito del nostro cammino. Ed è un compito santo, perché è stare in comunione con il Signore, che per l’unità ha anzitutto pregato il Padre. E continuiamo a pregare pure per la fine delle guerre, specialmente in Ucraina e in Terra Santa. Un pensiero accorato va anche all’amato popolo del Burkina Faso, in particolare alle comunità che lì hanno preparato il materiale per la Settimana di Preghiera per l’Unità: possa l’amore al prossimo prendere il posto della violenza che affligge il loro Paese.

«“Che devo fare, Signore?”. E il Signore – racconta Paolo – mi disse: “Àlzati e prosegui”» (At 22,10). Alzati, dice Gesù a ciascuno di noi e alla nostra ricerca di unità. Alziamoci allora, nel nome di Cristo, dalle nostre stanchezze e dalle nostre abitudini, e proseguiamo, andiamo avanti, perché Lui lo vuole, e lo vuole «perché il mondo creda» (Gv 17,21). Preghiamo, dunque, e andiamo avanti, perché questo Dio desidera da noi. E’ questo che desidera da noi.

Messaggio del Santo Padre per la Campagna di Fraternità 2024 della Chiesa in Brasile (25 gennaio 2024)

Gio, 25/01/2024 - 14:00

Cari fratelli e sorelle del Brasile,

Mentre iniziamo, con digiuno, penitenza e preghiera il cammino quaresimale, mi unisco ai miei fratelli della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile in un inno di rendimento di grazie all’Altissimo per i 60 anni della Campagna di Fraternità, un itinerario di conversione che unisce fede e vita, spiritualità e impegno fraterno, amore a Dio e amore al prossimo, specialmente a chi è più fragile e bisognoso di attenzione. Questo percorso è proposto ogni anno alla Chiesa in Brasile e a tutte le persone di buona volontà di questa amata nazione.

Quest’anno, con il tema “Fraternità e Amicizia Sociale” e il motto “Voi siete tutti fratelli e sorelle” (cfr. Mt 23, 8), i vescovi del Brasile invitano tutto il popolo brasiliano a percorrere, durante la Quaresima, un cammino di conversione basato sulla Lettera Enciclica Fratelli tutti, che ho firmato ad Assisi, il 3 ottobre 2020, vigilia della memoria liturgica di San Francesco.

Come fratelli e sorelle, siamo invitati a costruire una vera fraternità universale che favorisca la nostra vita in società e la nostra sopravvivenza sulla Terra, nostra Casa Comune, senza mai perdere di vista il Cielo dove il Padre ci accoglierà tutti come suoi figli e figlie.

Purtroppo nel mondo vediamo ancora molte ombre, segnali della chiusura in se stessi. Perciò, ricordo il bisogno di allargare la nostra cerchia per arrivare a quelli che spontaneamente non sentiamo parte del nostro mondo di interessi (cfr. Fratelli tutti, n. 97), di estendere il nostro amore a “ogni essere vivente” (ibidem, n. 59), vincendo frontiere e superando “le barriere della geografia e dello spazio” (ibidem, n. 1).

Auspico che la Chiesa in Brasile ottenga buoni frutti in questo cammino quaresimale e formulo voti affinché la Campagna di Fraternità, ancora una volta, aiuti le persone e le comunità di questa amata nazione nel loro processo di conversione al Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo, superando ogni divisione, indifferenza, odio e violenza.

Affidando questi voti alle cure di Nossa Senhora Aparecida, e come pegno di abbondanti grazie celesti, concedo volentieri a tutti i figli e le figlie dell’amata nazione brasiliana, in modo particolare a quelli che s’impegnano per la fraternità universale, la Benedizione Apostolica, chiedendo che continuino a pregare per me.

Roma, San Giovanni in Laterano, 25 gennaio 2024,
Festa liturgica della conversione di San Paolo Apostolo.

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 37, mercoledì 14 febbraio 2024, p. 8.

Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2024

Gio, 25/01/2024 - 10:00

Andate e invitate al banchetto tutti (cfr Mt 22,9)

 

Cari fratelli e sorelle!

Per la Giornata Missionaria Mondiale di quest’anno ho tratto il tema dalla parabola evangelica del banchetto nuziale (cfr Mt 22,1-14). Dopo che gli invitati hanno rifiutato l’invito, il re, protagonista del racconto, dice ai suoi servi: «Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze» (v. 9). Riflettendo su questa parola-chiave, nel contesto della parabola e della vita di Gesù, possiamo mettere in luce alcuni aspetti importanti dell’evangelizzazione. Essi si rivelano particolarmente attuali per tutti noi, discepoli-missionari di Cristo, in questa fase finale del percorso sinodale che, in conformità al motto “Comunione, partecipazione, missione”, dovrà rilanciare la Chiesa verso il suo impegno prioritario, cioè l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo.

1. “Andate e invitate!”. La missione come instancabile andare e invitare alla festa del Signore

All’inizio del comando del re ai suoi servi, ci sono i due verbi che esprimono il nucleo della missione: “andate” e “chiamate” nel senso di “invitate”.

Riguardo al primo, va ricordato che in precedenza i servi erano stati già inviati a trasmettere il messaggio del re agli invitati (cfr vv. 3-4). Questo ci dice che la missione è un andare instancabile verso tutta l’umanità per invitarla all’incontro e alla comunione con Dio. Instancabile! Dio, grande nell’amore e ricco di misericordia, è sempre in uscita verso ogni uomo per chiamarlo alla felicità del suo Regno, malgrado l’indifferenza o il rifiuto. Così Gesù Cristo, buon pastore e inviato del Padre, andava in cerca delle pecore perdute del popolo d’Israele e desiderava andare oltre per raggiungere anche le pecore più lontane (cfr Gv 10,16). Egli ha detto ai discepoli: “Andate!”, sia prima sia dopo la sua risurrezione, coinvolgendoli nella sua stessa missione (cfr Lc 10,3; Mc 16,15). Per questo, la Chiesa continuerà ad andare oltre ogni confine, ad uscire ancora e ancora senza stancarsi o perdersi d’animo di fronte a difficoltà e ostacoli, per compiere fedelmente la missione ricevuta dal Signore.

Colgo l’occasione per ringraziare i missionari e le missionarie che, rispondendo alla chiamata di Cristo, hanno lasciato tutto per andare lontano dalla loro patria e portare la Buona Notizia là dove la gente ancora non l’ha ricevuta o l’ha accolta da poco. Carissimi, la vostra generosa dedizione è l’espressione tangibile dell’impegno della missione ad gentes che Gesù ha affidato ai suoi discepoli: «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). Continuiamo perciò a pregare e ringraziare Dio per le nuove e numerose vocazioni missionarie per l’opera di evangelizzazione sino ai confini della terra.

E non dimentichiamo che ogni cristiano è chiamato a prendere parte a questa missione universale con la propria testimonianza evangelica in ogni ambiente, così che tutta la Chiesa esca continuamente con il suo Signore e Maestro verso i “crocicchi delle strade” del mondo di oggi. Sì, «oggi il dramma della Chiesa è che Gesù continua a bussare alla porta, ma dal di dentro, perché lo lasciamo uscire! Tante volte si finisce per essere una Chiesa […] che non lascia uscire il Signore, che lo tiene come “cosa propria”, mentre il Signore è venuto per la missione e ci vuole missionari» (Discorso ai partecipanti al convegno promosso dal Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, 18 febbraio 2023). Che tutti noi, battezzati, ci disponiamo ad andare di nuovo, ognuno secondo la propria condizione di vita, per avviare un nuovo movimento missionario, come agli albori del cristianesimo!

Tornando al comando del re ai servi nella parabola, l’andare va insieme con il chiamare o, più precisamente, l’invitare: «Venite alle nozze!» (Mt 22,4). Ciò lascia intravedere un altro aspetto non meno importante della missione affidata da Dio. Come si può immaginare, quei servi-messaggeri trasmettevano l’invito del sovrano con urgenza ma anche con grande rispetto e gentilezza. Allo stesso modo, la missione di portare il Vangelo ad ogni creatura deve avere necessariamente lo stesso stile di Colui che si annuncia. Nel proclamare al mondo «la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 36), i discepoli-missionari lo fanno con gioia, magnanimità, benevolenza, frutto dello Spirito Santo in loro (cfr Gal 5,22); senza forzatura, coercizione, proselitismo; sempre con vicinanza, compassione e tenerezza, che riflettono il modo di essere e di agire di Dio.

2. Al banchetto. La prospettiva escatologica ed eucaristica della missione di Cristo e della Chiesa

Nella parabola, il re chiede ai servi di portare l’invito al banchetto per le nozze di suo figlio. Tale banchetto riflette quello escatologico, è immagine della salvezza finale nel Regno di Dio, realizzata fin d’ora con la venuta di Gesù, il Messia e Figlio di Dio, che ci ha donato la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10), simboleggiata dalla mensa imbandita «di cibi succulenti, di vini raffinati», quando Dio «eliminerà la morte per sempre» (Is 25,6-8).

La missione di Cristo è quella della pienezza dei tempi, come Egli ha dichiarato all’inizio della sua predicazione: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15). Così, i discepoli di Cristo sono chiamati a continuare questa stessa missione del loro Maestro e Signore. Ricordiamo in proposito l’insegnamento del Concilio Vaticano II sul carattere escatologico dell’impegno missionario della Chiesa: «Il periodo dell’attività missionaria si colloca tra la prima e la seconda venuta di Cristo […]. Prima appunto della venuta del Signore, il Vangelo deve essere annunziato a tutte le nazioni» (Decr. Ad gentes, 9).

Sappiamo che lo zelo missionario nei primi cristiani aveva una forte dimensione escatologica. Sentivano l’urgenza dell’annuncio del Vangelo. Anche oggi è importante tener presente tale prospettiva, perché essa ci aiuta ad evangelizzare con la gioia di chi sa che «il Signore è vicino» e con la speranza di chi è proteso alla meta, quando saremo tutti con Cristo al suo banchetto nuziale nel Regno di Dio. Mentre dunque il mondo propone i vari “banchetti” del consumismo, del benessere egoistico, dell’accumulo, dell’individualismo, il Vangelo chiama tutti al banchetto divino dove regnano la gioia, la condivisione, la giustizia, la fraternità, nella comunione con Dio e con gli altri.

Questa pienezza di vita, dono di Cristo, è anticipata già ora nel banchetto dell’Eucaristia, che la Chiesa celebra su mandato del Signore in memoria di Lui. E così l’invito al banchetto escatologico che portiamo a tutti nella missione evangelizzatrice è intrinsecamente legato all’invito alla mensa eucaristica, dove il Signore ci nutre con la sua Parola e con il suo Corpo e il suo Sangue. Come ha insegnato Benedetto XVI, «in ogni Celebrazione eucaristica si realizza sacramentalmente il radunarsi escatologico del Popolo di Dio. Il banchetto eucaristico è per noi reale anticipazione del banchetto finale, preannunziato dai Profeti (cfr Is 25,6-9) e descritto nel Nuovo Testamento come “le nozze dell’Agnello” (Ap 19,7.9), da celebrarsi nella gioia della comunione dei santi» (Esort. ap. postsin. Sacramentum Caritatis, 31).

Perciò, siamo tutti chiamati a vivere più intensamente ogni Eucaristia in tutte le sue dimensioni, particolarmente in quella escatologica e missionaria. Ribadisco, a tale  proposito, che «non possiamo accostarci alla Mensa eucaristica senza lasciarci trascinare nel movimento della missione che, prendendo avvio dal Cuore stesso di Dio, mira a raggiungere tutti gli uomini» (ivi, 84). Il rinnovamento eucaristico, che molte Chiese locali stanno lodevolmente promuovendo nel periodo post-Covid, sarà anche fondamentale per risvegliare lo spirito missionario in ogni fedele. Con quanta più fede e slancio del cuore, in ogni Messa, dovremmo pronunciare l’acclamazione: «Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta»!

In questa prospettiva, nell’anno dedicato alla preghiera in preparazione al Giubileo del 2025, desidero invitare tutti a intensificare anche e soprattutto la partecipazione alla Messa e la preghiera per la missione evangelizzatrice della Chiesa. Essa, obbediente alla parola del Salvatore, non cessa di innalzare a Dio in ogni celebrazione eucaristica e liturgica l’orazione del Padre nostro con l’invocazione «Venga il Tuo regno». E così la preghiera quotidiana e particolarmente l’Eucaristia fanno di noi dei pellegrini-missionari della speranza, in cammino verso la vita senza fine in Dio, verso il banchetto nuziale preparato da Dio per tutti i suoi figli.

3. “Tutti”. La missione universale dei discepoli di Cristo e la Chiesa tutta sinodale-missionaria

La terza e ultima riflessione riguarda i destinatari dell’invito del re: «tutti». Come ho sottolineato, «questo è al cuore della missione: quel “tutti”. Senza escludere nessuno. Tutti. Ogni nostra missione, quindi, nasce dal Cuore di Cristo per lasciare che Egli attiri tutti a sé» (Discorso ai partecipanti all’Assemblea generale delle Pontificie Opere Missionarie, 3 giugno 2023). Ancora oggi, in un mondo lacerato da divisioni e conflitti, il Vangelo di Cristo è la voce mite e forte che chiama gli uomini a incontrarsi, a riconoscersi fratelli e a gioire dell’armonia tra le diversità. Dio vuole che «tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4). Perciò, non dimentichiamo mai, nelle nostre attività missionarie, che siamo inviati ad annunciare il Vangelo a tutti, e «non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 14).

I discepoli-missionari di Cristo hanno sempre nel cuore la preoccupazione per tutte le persone di ogni condizione sociale o anche morale. La parabola del banchetto ci dice che, seguendo la raccomandazione del re, i servi radunarono «tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni» (Mt 22,10). Inoltre, proprio «i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi» (Lc 14,21), vale a dire gli ultimi ed emarginati della società, sono gli invitati speciali del re. Così, il banchetto nuziale del Figlio che Dio ha preparato rimane per sempre aperto a tutti, perché grande e incondizionato è il suo amore per ognuno di noi. «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Chiunque, ogni uomo e ogni donna è destinatario dell’invito di Dio a partecipare alla sua grazia che trasforma e salva. Bisogna solo dire “sì” a questo dono divino gratuito, accogliendolo e lasciandosi trasformare da esso, rivestendosene come di una “veste nuziale” (cfr Mt 22,12).

La missione per tutti richiede l’impegno di tutti. Occorre perciò continuare il cammino verso una Chiesa tutta sinodale-missionaria a servizio del Vangelo. La sinodalità è di per sé missionaria e, viceversa, la missione è sempre sinodale. Pertanto, una stretta cooperazione missionaria risulta oggi ancora più urgente e necessaria nella Chiesa universale come pure nelle Chiese particolari. Sulla scia del Concilio Vaticano II e dei miei Predecessori, raccomando a tutte le diocesi del mondo il servizio delle Pontificie Opere Missionarie, che costituiscono i mezzi primari «sia per infondere nei cattolici, fin dalla più tenera età, uno spirito veramente universale e missionario, sia per favorire una adeguata raccolta di sussidi a vantaggio di tutte le missioni e secondo le necessità di ciascuna» (Decr. Ad gentes, 38). Per questo, le collette della Giornata Missionaria Mondiale in tutte le Chiese locali sono interamente destinate al Fondo universale di solidarietà che la Pontificia Opera della Propagazione della Fede poi distribuisce, a nome del Papa, per le necessità di tutte le missioni della Chiesa. Preghiamo il Signore che ci guidi e ci aiuti ad essere Chiesa più sinodale e più missionaria (cfr Omelia nella Messa conclusiva dell’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 29 ottobre 2023).

Rivolgiamo infine lo sguardo a Maria, che ottenne da Gesù il primo miracolo proprio ad una festa di nozze, a Cana di Galilea (cfr Gv 2,1-12). Il Signore offrì agli sposi e a tutti gli invitati l’abbondanza del vino nuovo, segno anticipato del banchetto nuziale che Dio prepara per tutti alla fine dei tempi. Chiediamo ancora oggi la sua materna intercessione per la missione evangelizzatrice dei discepoli di Cristo. Con la gioia e la premura della nostra Madre, con la forza della tenerezza e dell’affetto (cfr Evangelii gaudium, 288), andiamo e portiamo a tutti l’invito del Re Salvatore. Santa Maria, Stella dell’evangelizzazione, prega per noi!

Roma, San Giovanni in Laterano, 25 gennaio 2024, festa della conversione di San Paolo.

 

FRANCESCO

Inaugurazione dell'Anno Giudiziario del Tribunale della Rota Romana (25 gennaio 2024)

Gio, 25/01/2024 - 09:30

Cari Prelati Uditori!

Sono lieto di ricevervi, come ogni anno, insieme a coloro che lavorano nell’ambito di questo Tribunale Apostolico. Ringrazio il Decano e tutti voi per il prezioso servizio che rendete al ministero petrino in ordine all’amministrazione della giustizia nella Chiesa.

Vorrei oggi riflettere con voi su un aspetto capitale di questo servizio, un aspetto sul quale sono tornato spesso, anche con un ciclo di catechesi, cioè il tema del discernimento. Intendo mettere a fuoco quel discernimento specifico che tocca a voi realizzare nell’ambito dei processi matrimoniali, concernente l’esistenza o meno dei motivi per dichiarare la nullità di un matrimonio. Penso al vostro giudizio collegiale in Rota, a quello compiuto dai tribunali collegiali locali oppure, dove questo non fosse possibile, dal giudice unico coadiuvato magari da due assessori, nonché alla pronuncia emanata dallo stesso Vescovo diocesano, specialmente nei processi più brevi, consultandosi con l’istruttore e l’assessore.

È un tema sempre attuale, che ha interessato anche l’ambito dell’attuata riforma dei processi di nullità matrimoniale nonché la pastorale familiare, ispirata alla misericordia verso i fedeli che si trovano in situazioni problematiche. D’altra parte, l’abolizione del requisito di una doppia sentenza conforme nelle cause di nullità, l’introduzione del processo più breve davanti al Vescovo diocesano, nonché lo sforzo per snellire e rendere più accessibile l’operato dei tribunali, non devono essere fraintesi e mai deve venir meno l’esigenza di servire i fedeli con un ministero che li aiuti a cogliere la verità sul loro matrimonio. È un servizio, è un servizio che noi diamo. Come ho affermato nel proemio del Motu proprio Mitis iudex Dominus Iesuss, la finalità è di favorire «non la nullità dei matrimoni, ma la celerità dei processi, non meno che una giusta semplicità, affinché, a motivo della ritardata definizione del giudizio, il cuore dei fedeli che attendono il chiarimento del proprio stato non sia lungamente oppresso dalle tenebre del dubbio». Perciò, seguendo le orme dei miei Predecessori, ho voluto «che le cause di nullità del matrimonio vengano trattate per via giudiziale, e non amministrativa, non perché lo imponga la natura della cosa, ma piuttosto lo esiga la necessità di tutelare in massimo grado la verità del sacro vincolo: e ciò è esattamente assicurato dalle garanzie dell’ordine giudiziario».

Allo stesso tempo, l’aver sottolineato l’importanza della misericordia nella pastorale familiare, co me ho fatto in particolare con l’Esortazione apostolica Amoris laetitia [1], non diminuisce il nostro impegno nella ricerca della giustizia per quanto riguarda le cause di nullità. Al contrario, proprio alla luce della misericordia, verso le persone e le loro coscienze, è importante il discernimento giudiziale sulla nullità. Esso possiede un valore pastorale insostituibile e si inserisce armonicamente nell’insieme della cura pastorale dovuta alle famiglie. Si realizza così quanto affermato da San Tommaso d’Aquino: «La misericordia non toglie la giustizia, ma è una pienezza della giustizia» [2].

Come sapete bene per la vostra esperienza, il compito di giudicare spesso non è facile. Raggiungere la certezza morale sulla nullità, superando nel caso concreto la presunzione di validità, implica portare a termine un discernimento a cui tutto il processo, specialmente l’istruttoria, è ordinato. Tale discernimento costituisce una grande responsabilità che la Chiesa vi affida, perché influisce fortemente sulla vita delle persone e delle famiglie. Bisogna affrontare questo compito con coraggio e lucidità ma, prima di tutto, è decisivo contare sulla luce e la forza dello Spirito Santo. Cari giudici, senza preghiera non si può fare il giudice. Se qualcuno non prega, per favore, si dimetta, è meglio così. Nell’Adsumus, la bella invocazione al Paraclito che viene recitata nelle adunanze del vostro Tribunale, si dice: «Siamo qui dinanzi a te, Spirito Santo, siamo tutti riuniti nel tuo nome. Vieni a noi, assistici, scendi nei nostri cuori. Insegnaci tu ciò che dobbiamo fare, mostraci tu il cammino da seguire tutti insieme. Non permettere che da noi peccatori sia lesa la giustizia, non ci faccia sviare l’ignoranza, non ci renda parziali l’umana simpatia, perché siamo una sola cosa in te e in nulla ci discostiamo dalla verità». Ricordiamoci sempre questo: il discernimento si fa “in ginocchio” – e un giudice che non sa mettersi in ginocchio è meglio che si dimetta –, implorando il dono dello Spirito Santo: solo così si giunge a decisioni che vanno nella direzione del bene delle persone e dell’intera comunità ecclesiale.

L’oggettività del discernimento giudiziale richiede poi di essere liberi da ogni pregiudizio, sia a favore sia contro la dichiarazione di nullità. Ciò implica di liberarsi sia dal rigorismo di chi pretenderebbe una certezza assoluta sia da un atteggiamento ispirato alla falsa convinzione che la risposta migliore sia sempre la nullità, quello che San Giovanni Paolo II chiamò il «rischio di una malintesa compassione […], solo apparentemente pastorale». In realtà – proseguiva il Papa – «le vie che si discostano dalla giustizia e dalla verità finiscono col contribuire ad allontanare le persone da Dio, ottenendo il risultato opposto a quello che in buona fede si cercava» [3].

Il discernimento del giudice richiede due grandi virtù: la prudenza e la giustizia, che devono essere informate dalla carità. C’è un’intima connessione tra prudenza e giustizia, poiché l’esercizio della prudentia iuris è mira alla conoscenza di ciò che è giusto nel caso concreto. Una prudenza dunque che non riguarda una decisione discrezionale, bensì un atto dichiarativo sull’esistenza o meno del bene del matrimonio; pertanto, una prudenza giuridica che, per essere veramente pastorale, dev’essere giusta. Il discernimento giusto implica un atto di carità pastorale, anche quando la sentenza fosse negativa. E anche un rischio.

Il discernimento sulla validità del vincolo è un’operazione complessa, rispetto alla quale non dobbiamo dimenticare che l’interpretazione della legge ecclesiastica va fatta alla luce della verità sul matrimonio indissolubile, che la Chiesa custodisce e diffonde nella sua predicazione e nella sua missione. Come insegnò Benedetto XVI, «l’interpretazione della legge canonica deve avvenire nella Chiesa. Non si tratta di una mera circostanza esterna, ambientale: è un richiamo allo stesso humus della legge canonica e delle realtà da essa regolate. Il sentire cum Ecclesia ha senso anche nella disciplina, a motivo dei fondamenti dottrinali che sono sempre presenti e operanti nelle norme legali della Chiesa» [4]. Questo chiedo a voi, giudici: sentire con la Chiesa. E vi domando, a ognuno di voi: voi pregate, per sentire con la Chiesa? Siete umili nella preghiera, chiedendo luce al Signore, per sentire con la Chiesa? Torno su questo: la preghiera del giudice è essenziale al suo compito. Se un giudice non prega o non può pregare, meglio che vada a fare un altro mestiere.

Infine, vorrei ricordare che il discernimento sulla nullità viene sorretto e garantito dal suo essere sinodale [5]. Quando il tribunale è collegiale, come avviene di regola, oppure quando c’è un unico giudice ma egli si consulta con chi di dovere, il discernimento si compie in un clima di dialogo o discussione, in cui sono fondamentali la franchezza e l’ascolto mutuo, per una ricerca comune della verità. È anche uno studio previo e serio. Come ho già detto, in questo servizio è essenziale invocare lo Spirito Santo, mentre ci impegniamo a mettere in atto tutti i mezzi umani per appurare la verità. Per questo è importante che l’istruttoria sia svolta accuratamente, per non incorrere in un giudizio affrettato e aprioristico, così come è necessario che, per adempiere in modo adeguato il suo munus, il giudice coltivi la propria formazione permanente mediante lo studio della giurisprudenza e della dottrina giuridica. Tocca a voi, cari Prelati Uditori, una speciale responsabilità nel giudicare: perciò vi raccomando la docilità allo Spirito Santo, e la disponibilità ad essere in ogni circostanza operatori di giustizia.

Affido il vostro lavoro a Maria Santissima, Virgo prudentissima e Speculum iustitiae, e di cuore vi benedico. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me, perché questo lavoro non è facile! A volte è divertente, ma non è facile. Grazie.

 

[1] Cfr soprattutto il capitolo VIII.

[2] Summa Theologiae, I, q. 21, a. 3, ad 2. Cfr Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 311.

[3] Discorso alla Rota Romana18 gennaio 1990, n. 5.

[4] Discorso alla Rota Romana, 21 gennaio 2012.

[5] Cfr Discorso alla Rota Romana27 gennaio 2022.

LVIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 2024 - Intelligenza artificiale e sapienza del cuore: per una comunicazione pienamente umana

Mer, 24/01/2024 - 11:30

Intelligenza artificiale e sapienza del cuore:
per una comunicazione pienamente umana

 

Cari fratelli e sorelle!

L’evoluzione dei sistemi della cosiddetta “intelligenza artificiale”, sulla quale ho già riflettuto nel recente Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, sta modificando in modo radicale anche l’informazione e la comunicazione e, attraverso di esse, alcune basi della convivenza civile. Si tratta di un cambiamento che coinvolge tutti, non solo i professionisti. L’accelerata diffusione di meravigliose invenzioni, il cui funzionamento e le cui potenzialità sono indecifrabili per la maggior parte di noi, suscita uno stupore che oscilla tra entusiasmo e disorientamento e ci pone inevitabilmente davanti a domande di fondo: cosa è dunque l’uomo, qual è la sua specificità e quale sarà il futuro di questa nostra specie chiamata homo sapiens nell’era delle intelligenze artificiali? Come possiamo rimanere pienamente umani e orientare verso il bene il cambiamento culturale in atto?

A partire dal cuore

Innanzitutto conviene sgombrare il terreno dalle letture catastrofiche e dai loro effetti paralizzanti. Già un secolo fa, riflettendo sulla tecnica e sull’uomo, Romano Guardini invitava a non irrigidirsi contro il “nuovo” nel tentativo di «conservare un bel mondo condannato a sparire». Al tempo stesso, però, in modo accorato ammoniva profeticamente: «Il nostro posto è nel divenire. Noi dobbiamo inserirvici, ciascuno al proprio posto (…), aderendovi onestamente ma rimanendo tuttavia sensibili, con un cuore incorruttibile, a tutto ciò che di distruttivo e di non umano è in esso». E concludeva: «Si tratta, è vero, di problemi di natura tecnica, scientifica, politica; ma essi non possono esser risolti se non procedendo dall’uomo. Deve formarsi un nuovo tipo umano, dotato di una più profonda spiritualità, di una libertà e di una interiorità nuove» [1].

In quest’epoca che rischia di essere ricca di tecnica e povera di umanità, la nostra riflessione non può che partire dal cuore umano [2]. Solo dotandoci di uno sguardo spirituale, solo recuperando una sapienza del cuore, possiamo leggere e interpretare la novità del nostro tempo e riscoprire la via per una comunicazione pienamente umana. Il cuore, inteso biblicamente come sede della libertà e delle decisioni più importanti della vita, è simbolo di integrità, di unità, ma evoca anche gli affetti, i desideri, i sogni, ed è soprattutto luogo interiore dell’incontro con Dio. La sapienza del cuore è perciò quella virtù che ci permette di tessere insieme il tutto e le parti, le decisioni e le loro conseguenze, le altezze e le fragilità, il passato e il futuro, l’io e il noi.

Questa sapienza del cuore si lascia trovare da chi la cerca e si lascia vedere da chi la ama; previene chi la desidera e va in cerca di chi ne è degno (cfr Sap 6,12-16). Sta con chi accetta consigli (cfr Pr 13,10), con chi ha il cuore docile, un cuore che ascolta (cfr 1 Re 3,9). Essa è un dono dello Spirito Santo, che permette di vedere le cose con gli occhi di Dio, di comprendere i nessi, le situazioni, gli avvenimenti e di scoprirne il senso. Senza questa sapienza l’esistenza diventa insipida, perché è proprio la sapienza – la cui radice latina sapere la accomuna al sapore – a donare gusto alla vita.

Opportunità e pericolo

Non possiamo pretendere questa sapienza dalle macchine. Benché il termine intelligenza artificiale abbia ormai soppiantato quello più corretto, utilizzato nella letteratura scientifica, machine learning, l’utilizzo stesso della parola “intelligenza” è fuorviante. Le macchine possiedono certamente una capacità smisuratamente maggiore rispetto all’uomo di memorizzare i dati e di correlarli tra loro, ma spetta all’uomo e solo a lui decodificarne il senso. Non si tratta quindi di esigere dalle macchine che sembrino umane. Si tratta piuttosto di svegliare l’uomo dall’ipnosi in cui cade per il suo delirio di onnipotenza, credendosi soggetto totalmente autonomo e autoreferenziale, separato da ogni legame sociale e dimentico della sua creaturalità.

In realtà, l’uomo da sempre sperimenta di non bastare a sé stesso e cerca di superare la propria vulnerabilità servendosi di ogni mezzo. A partire dai primi manufatti preistorici, utilizzati come prolungamenti delle braccia, attraverso i media impiegati come estensione della parola, siamo oggi giunti alle più sofisticate macchine che agiscono come ausilio del pensiero. Ognuna di queste realtà può però essere contaminata dalla tentazione originaria di diventare come Dio senza Dio (cfr Gen 3), cioè di voler conquistare con le proprie forze ciò che andrebbe invece accolto come dono da Dio e vissuto nella relazione con gli altri.

A seconda dell’orientamento del cuore, ogni cosa nelle mani dell’uomo diventa opportunità o pericolo. Il suo stesso corpo, creato per essere luogo di comunicazione e comunione, può diventare mezzo di aggressività. Allo stesso modo ogni prolungamento tecnico dell’uomo può essere strumento di servizio amorevole o di dominio ostile. I sistemi di intelligenza artificiale possono contribuire al processo di liberazione dall’ignoranza e facilitare lo scambio di informazioni tra popoli e generazioni diverse. Possono ad esempio rendere raggiungibile e comprensibile un enorme patrimonio di conoscenze scritto in epoche passate o far comunicare le persone in lingue per loro sconosciute. Ma possono al tempo stesso essere strumenti di “inquinamento cognitivo”, di alterazione della realtà tramite narrazioni parzialmente o totalmente false eppure credute – e condivise – come se fossero vere. Basti pensare al problema della disinformazione che stiamo affrontando da anni nella fattispecie delle fake news [3] e che oggi si avvale del deep fake, cioè della creazione e diffusione di immagini che sembrano perfettamente verosimili ma sono false (è capitato anche a me di esserne oggetto), o di messaggi audio che usano la voce di una persona dicendo cose che la stessa non ha mai detto. La simulazione, che è alla base di questi programmi, può essere utile in alcuni campi specifici, ma diventa perversa là dove distorce il rapporto con gli altri e la realtà.

Della prima ondata di intelligenza artificiale, quella dei social media, abbiamo già compreso l’ambivalenza toccandone con mano, accanto alle opportunità, anche i rischi e le patologie. Il secondo livello di intelligenze artificiali generative segna un indiscutibile salto qualitativo. È importante quindi avere la possibilità di comprendere, capire e regolamentare strumenti che nelle mani sbagliate potrebbero aprire scenari negativi. Come ogni altra cosa uscita dalla mente e dalle mani dell’uomo, anche gli algoritmi non sono neutri. Perciò è necessario agire preventivamente, proponendo modelli di regolamentazione etica per arginare i risvolti dannosi e discriminatori, socialmente ingiusti, dei sistemi di intelligenza artificiale e per contrastare il loro utilizzo nella riduzione del pluralismo, nella polarizzazione dell’opinione pubblica o nella costruzione di un pensiero unico. Rinnovo dunque il mio appello esortando «la Comunità delle nazioni a lavorare unita al fine di adottare un trattato internazionale vincolante, che regoli lo sviluppo e l’uso dell’intelligenza artificiale nelle sue molteplici forme» [4]. Tuttavia, come in ogni ambito umano, la regolamentazione non basta.

Crescere in umanità

Siamo chiamati a crescere insieme, in umanità e come umanità. La sfida che ci è posta dinanzi è di fare un salto di qualità per essere all’altezza di una società complessa, multietnica, pluralista, multireligiosa e multiculturale. Sta a noi interrogarci sullo sviluppo teorico e sull’uso pratico di questi nuovi strumenti di comunicazione e di conoscenza. Grandi possibilità di beneaccompagnano il rischio che tutto si trasformi in un calcolo astratto, che riduce le persone a dati, il pensiero a uno schema, l’esperienza a un caso, il bene al profitto, e soprattutto che si finisca col negare l’unicità di ogni persona e della sua storia, col dissolvere la concretezza della realtà in una serie di dati statistici.

La rivoluzione digitale può renderci più liberi, ma non certo se ci imprigiona nei modelli oggi noti come echo chamber. In questi casi, anziché accrescere il pluralismo dell’informazione, si rischia di trovarsi sperduti in una palude anonima, assecondando gli interessi del mercato o del potere. Non è accettabile che l’uso dell’intelligenza artificiale conduca a un pensiero anonimo, a un assemblaggio di dati non certificati, a una deresponsabilizzazione editoriale collettiva. La rappresentazione della realtà in big data, per quanto funzionale alla gestione delle macchine, implica infatti una perdita sostanziale della verità delle cose, che ostacola la comunicazione interpersonale e rischia di danneggiare la nostra stessa umanità. L’informazione non può essere separata dalla relazione esistenziale: implica il corpo, lo stare nella realtà; chiede di mettere in relazione non solo dati, ma esperienze; esige il volto, lo sguardo, la compassione oltre che la condivisione.

Penso al racconto delle guerre e a quella “guerra parallela” che si fa tramite campagne di disinformazione. E penso a quanti reporter sono feriti o muoiono sul campo per permetterci di vedere quello che i loro occhi hanno visto. Perché solo toccando con mano la sofferenza dei bambini, delle donne e degli uomini, si può comprendere l’assurdità delle guerre.

L’uso dell’intelligenza artificiale potrà contribuire positivamente nel campo della comunicazione, se non annullerà il ruolo del giornalismo sul campo, ma al contrario lo affiancherà; se valorizzerà le professionalità della comunicazione, responsabilizzando ogni comunicatore; se restituirà ad ogni essere umano il ruolo di soggetto, con capacità critica, della comunicazione stessa.

Interrogativi per l’oggi e il domani

Alcune domande sorgono dunque spontanee: come tutelare la professionalità e la dignità dei lavoratori nel campo della comunicazione e della informazione, insieme a quella degli utenti in tutto il mondo? Come garantire l’interoperabilità delle piattaforme? Come far sì che le aziende che sviluppano piattaforme digitali si assumano le proprie responsabilità rispetto a ciò che diffondono e da cui traggono profitto, analogamente a quanto avviene per gli editori dei media tradizionali? Come rendere più trasparenti i criteri alla base degli algoritmi di indicizzazione e de-indicizzazione e dei motori di ricerca, capaci di esaltare o cancellare persone e opinioni, storie e culture? Come garantire la trasparenza dei processi informativi? Come rendere evidente la paternità degli scritti e tracciabili le fonti, impedendo il paravento dell’anonimato? Come rendere manifesto se un’immagine o un video ritraggono un evento o lo simulano? Come evitare che le fonti si riducano a una sola, a un pensiero unico elaborato algoritmicamente? E come invece promuovere un ambiente adatto a preservare il pluralismo e a rappresentare la complessità della realtà? Come possiamo rendere sostenibile questo strumento potente, costoso ed estremamente energivoro? Come possiamo renderlo accessibile anche ai paesi in via di sviluppo?

Dalle risposte a questi e ad altri interrogativi capiremo se l’intelligenza artificiale finirà per costruire nuove caste basate sul dominio informativo, generando nuove forme di sfruttamento e di diseguaglianza; oppure se, al contrario, porterà più eguaglianza, promuovendo una corretta informazione e una maggiore consapevolezza del passaggio di epoca che stiamo attraversando, favorendo l’ascolto dei molteplici bisogni delle persone e dei popoli, in un sistema di informazione articolato e pluralista. Da una parte si profila lo spettro di una nuova schiavitù, dall’altra una conquista di libertà; da una parte la possibilità che pochi condizionino il pensiero di tutti, dall’altra quella che tutti partecipino all’elaborazione del pensiero.

La risposta non è scritta, dipende da noi. Spetta all’uomo decidere se diventare cibo per gli algoritmi oppure nutrire di libertà il proprio cuore, senza il quale non si cresce nella sapienza. Questa sapienza matura facendo tesoro del tempo e abbracciando le vulnerabilità. Cresce nell’alleanza fra le generazioni, fra chi ha memoria del passato e chi ha visione di futuro. Solo insieme cresce la capacità di discernere, di vigilare, di vedere le cose a partire dal loro compimento. Per non smarrire la nostra umanità, ricerchiamo la Sapienza che è prima di ogni cosa (cfr Sir 1,4), che passando attraverso i cuori puri prepara amici di Dio e profeti (cfr Sap 7,27): ci aiuterà ad allineare anche i sistemi dell’intelligenza artificiale a una comunicazione pienamente umana.

Roma, San Giovanni in Laterano, 24 gennaio 2024

FRANCESCO
 

 

[1] Lettere dal lago di Como, Brescia 2022 5, 95-97.

[2] In continuità con i Messaggi per le precedenti Giornate Mondiali delle Comunicazioni Sociali, dedicati all’ incontrare le persone dove e come sono (2021), all’ ascoltare con l’orecchio del cuore (2022) e al parlare col cuore (2023).

[3] Cfr “La verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace. Messaggio per la LII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 2018.

[4] Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2024, 8.

Udienza Generale del 24 Gennaio 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 5. <i>L’avarizia</i>

Mer, 24/01/2024 - 09:00

Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

Catechesi. I vizi e le virtù. 5. L’avarizia

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguiamo le catechesi sui vizi e le virtù e oggi parliamo dell’avarizia, cioè di quella forma di attaccamento al denaro che impedisce all’uomo la generosità.

Non è un peccato che riguarda solo le persone che possiedono ingenti patrimoni, ma un vizio trasversale, che spesso non ha nulla a che vedere con il saldo del conto corrente. È una malattia del cuore, non del portafogli.

Le analisi che i padri del deserto compirono su questo male misero in luce come l’avarizia potesse impadronirsi anche di monaci i quali, dopo aver rinunciato a enormi eredità, nella solitudine della loro cella si erano attaccati ad oggetti di poco valore: non li prestavano, non li condividevano e men che meno erano disposti a regalarli. Un attaccamento a piccole cose, che toglie la libertà. Quegli oggetti diventavano per loro una sorta di feticcio da cui era impossibile staccarsi. Una specie di regressione allo stadio dei bambini che stringono il giocattolo ripetendo: “È mio! È mio!”. In questa rivendicazione si annida un rapporto malato con la realtà, che può sfociare in forme di accaparramento compulsivo o di accumulo patologico.

Per guarire da questa malattia i monaci proponevano un metodo drastico, eppure efficacissimo: la meditazione della morte. Per quanto una persona accumuli beni in questo mondo, di una cosa siamo assolutamente certi: che nella bara essi non ci entreranno. I beni non possiamo portarli con noi! Ecco svelata l’insensatezza di questo vizio. Il legame di possesso che costruiamo con le cose è solo apparente, perché non siamo noi i padroni del mondo: questa terra che amiamo, in verità non è nostra, e noi ci muoviamo su di essa come forestieri e pellegrini (cfr Lv 25,23).

Queste semplici considerazioni ci fanno intuire la follia dell’avarizia, ma anche la sua ragione più recondita. Essa è un tentativo di esorcizzare la paura della morte: cerca sicurezze che in realtà si sbriciolano nel momento stesso in cui le impugniamo. Ricordate la parabola di quell’uomo stolto, la cui campagna aveva offerto una mietitura abbondantissima, e allora si culla nei pensieri su come allargare i suoi magazzini per metterci tutto il raccolto. Quell’uomo aveva calcolato tutto, programmato il futuro. Non aveva però considerato la variabile più sicura della vita: la morte. «Stolto – dice il Vangelo –, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (Lc 12,20).

In altri casi, sono i ladri a renderci questo servizio. Anche nei Vangeli essi hanno un buon numero di apparizioni e, sebbene il loro operato sia censurabile, esso può diventare un ammonimento salutare. Così predica Gesù nel discorso della montagna: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano» (Mt 6,19-20). Sempre nei racconti dei padri del deserto si narra la vicenda di qualche ladro che sorprende nel sonno il monaco, e gli ruba i pochi beni che custodiva nella cella. Al risveglio, per nulla turbato dall’accaduto, il monaco si mette sulle tracce del ladro e, una volta trovatolo, anziché reclamare la refurtiva, gli consegna le poche cose rimaste dicendo: “Hai dimenticato di prendere queste!”.

Noi, fratelli e sorelle, possiamo essere signori dei beni che possediamo, ma spesso accade il contrario: sono loro alla fine a possederci. Alcuni uomini ricchi non sono più liberi, non hanno più nemmeno il tempo di riposare, devono guardarsi alle spalle perché l’accumulo dei beni esige anche la loro custodia. Sono sempre in ansia perché un patrimonio si costruisce con tanto sudore, ma può sparire in un attimo. Dimenticano la predicazione evangelica, la quale non sostiene che le ricchezze in sé stesse siano un peccato, ma di certo sono una responsabilità. Dio non è povero: è il Signore di tutto, però – scrive san Paolo – «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9).

È ciò che l’avaro non capisce. Poteva essere motivo di benedizione per molti, e invece si è infilato nel vicolo cieco dell’infelicità. E la vita dell’avaro è brutta. Ricordo il caso di un signore che ho conosciuto nell’altra diocesi, un uomo ricchissimo, e aveva la mamma ammalata. Lui era sposato. I fratelli si davano il turno per accudire la mamma, e la mamma prendeva uno yogurt, al mattino. Questo signore le dava la metà al mattino per darle l’altra metà al pomeriggio e risparmiare mezzo yogurt. Così è l’avarizia, così è l’attaccamento ai beni. Poi questo signore è morto, e i commenti delle persone che sono andate alla veglia era questo: “Ma, si vede che quest’uomo non ha niente addosso, ha lasciato tutto”. E poi, facendo un po’ di beffa, dicevano: “No, no, non potevano chiudere la bara perché voleva portare tutto con sé”. Questo, dell’avarizia, fa ridere gli altri: che alla fine dobbiamo dare il nostro corpo e la nostra anima al Signore e dobbiamo lasciare tutto. Stiamo attenti! E siamo generosi, generosi con tutti e generosi con coloro che hanno più bisogno di noi. Grazie. 

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Saluti

Je salue cordialement les pèlerins de langue française en particulier les collégiens et lycéens venus de France. Que le Seigneur nous donne la grâce de nous attacher aux seuls vrais bien : son amour et l’amour pour nos frères. Que Dieu vous bénisse.

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare i ragazzi delle medie e superiori provenienti dalla Francia. Il Signore ci dia la grazia di attaccarsi sull'unico vero bene: il suo amore e l'amore per i nostri fratelli e sorelle. Dio vi benedica!]

I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from Scotland, Korea and the United States of America. Upon all of you, and upon your families, I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ. God bless you!

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Scozia, Corea e Stati Uniti d’America. Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo. Dio vi benedica!]

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, wenn wir heute den Gedenktag des heiligen Kirchenlehrers Franz von Sales begehen, wollen wir uns daran erinnern, dass „alles der Liebe gehört“. Seine geistlichen Lehren mögen uns helfen, die Laster zu überwinden, um zur Fülle der göttlichen Liebe zu gelangen.

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, celebrando quest’oggi la memoria liturgica di San Francesco di Sales, dottore della Chiesa, ricordiamoci che “tutto appartiene all’amore”. I suoi insegnamenti spirituali ci aiutino a superare i vizi per poter raggiungere la pienezza dell’amore divino.]

Saludo cordialmente a todos los peregrinos de lengua española. Estamos celebrando la Semana de Oración por la Unidad de los Cristianos. El apóstol Pablo, de quien mañana recordamos su conversión, nos exhorta a trabajar juntos y con generosidad en la construcción del único e indivisible cuerpo de Cristo. Que Dios los bendiga y la Virgen Santa los acompañe. Muchas gracias.

Saúdo cordialmente os fiéis de língua portuguesa. Peçamos ao Senhor o dom de possuir um coração desprendido dos bens materiais, que não acumule tesouros nesta terra, mas no céu. Que Deus vos abençoe e Nossa Senhora vos guarde!

[Saluto cordialmente i fedeli di lingua portoghese. Chiediamo al Signore il dono di avere un cuore distaccato dai beni materiali, che non accumuli tesori su questa terra, ma nel cielo. Dio vi benedica e la Madonna vi custodisca!]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العربِيَّة. لا يكفِي أنْ نُراكِمَ خيراتِنا الماديَّةَ لنعيشَ حياةً لائقة، لأنَّ الحياةَ لا تَعتَمِدُ على ما نَملِكُه (راجع لوقا 12، 15). بل تَعتَمِدُ على العَلاقاتِ الجَيِّدَة: معَ الله، ومعَ الآخرينَ وحتَّى مع الَّذين لَدَيهِم القليل. بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِنْ كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Accumulare beni materiali non basta a vivere bene, perché la vita non dipende da ciò che si possiede (cfr Lc 12,15). Dipende invece dalle buone relazioni: con Dio, con gli altri e anche con chi ha di meno. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga ‎sempre da ogni male‎!]

Drodzy bracia i siostry Polacy. „Ku wolności wyswobodził nas Chrystus” (por. Ga 5, 1), i zachęca nas do życia w wolności. Do życia z sercem wolnym od tego co przyziemne, czyli tego co niszczy relacje z bliźnimi i z Panem Bogiem. Przyjmijcie z otwartym sercem dar Chrystusowej wolności! Z serca was pozdrawiam i wam błogosławię!

[Cari fratelli e sorelle polacchi. “Cristo ci ha liberati per la libertà” (Gal 5,1) e ci incoraggia a vivere nella libertà. A vivere con un cuore libero da ciò che è mondano, cioè da quello che distrugge le relazioni con il prossimo e con il Signore. Accogliete con cuore spalancato il dono della libertà di Cristo! Vi saluto cordialmente e vi benedico di cuore!]

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APPELLI

Sabato prossimo, 27 gennaio, si celebra la Giornata internazionale di commemorazione delle vittime dell’Olocausto. Il ricordo e la condanna di quell’orribile sterminio di milioni di persone ebree e di altre fedi, avvenuto nella prima metà del secolo scorso, aiuti tutti a non dimenticare che le logiche dell’odio e della violenza non si possono mai giustificare, perché negano la nostra stessa umanità.

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La guerra stessa è una negazione dell’umanità. Non stanchiamoci di pregare per la pace, perché cessino i conflitti, perché si arrestino le armi e si soccorrano le popolazioni stremate. Penso al Medio Oriente, alla Palestina, a Israele, penso e alle notizie inquietanti che provengono dalla martoriata Ucraina, soprattutto per i bombardamenti che colpiscono luoghi frequentati da civili, seminando morte, distruzione e sofferenza. Prego per le vittime e per i loro cari, e imploro tutti, specialmente chi ha responsabilità politica, a custodire la vita umana mettendo fine alle guerre. Non dimentichiamo: la guerra sempre è una sconfitta, sempre. Solo “vincono” – tra virgolette – i fabbricanti di armi.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i Frati Cappuccini formatori dell’area Europea, le Suore Orsoline dell’Unione Romana e l’Associazione Opera di San Michele Arcangelo di Petralia.

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Celebriamo oggi la memoria liturgica di San Francesco di Sales, maestro di vita spirituale: egli ha insegnato che la perfezione cristiana è accessibile a ogni persona, qualunque sia il suo stato di vita e la sua condizione sociale. Possiate anche voi vivere le condizioni in cui vi trovate come vie di santità, da percorrere con fiducia nell’amore di Dio.

A tutti la mia Benedizione!

Ai Produttori partecipanti alla Manifestazione Vinitaly (22 gennaio 2024)

Lun, 22/01/2024 - 09:30

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Vi do il benvenuto, saluto Mons. Pompili e ciascuno di voi. Siete qui in occasione del Convegno che Vinitaly ha organizzato sul tema “L’economia di Francesco e il mondo del vino italiano”. Per numero di aziende coinvolte, qualità di produzione e impatto occupazionale, la vostra è certamente una realtà significativa, sia sulla scena vinicola italiana che internazionale, ed è dunque bene che vi ritroviate a riflettere insieme sugli aspetti etici e sulle responsabilità morali che tutto ciò comporta, e che in questo traiate ispirazione dal Poverello di Assisi.

Le linee fondamentali su cui avete scelto di muovervi – attenzione all’ambiente, al lavoro e a sane abitudini di consumo – indicano un atteggiamento incentrato sul rispetto, a vari livelli. E il rispetto, nel vostro lavoro, è certamente fondamentale: per un prodotto di qualità, infatti, non basta l’applicazione di tecniche industriali e di logiche commerciali; la terra, la vite, i processi di coltivazione, fermentazione e stagionatura richiedono costanza, richiedono attenzione e richiedono pazienza.

La sacra Scrittura stessa parla di questi temi. Viene in mente la Lettera di Giacomo, che dice: «Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge» (Gc 5,7). E penso soprattutto a Gesù, il quale, nell’ultima immagine che lascia ai suoi discepoli, parla del Padre come di un agricoltore, che si prende cura della vite, potandola e facendo così in modo che porti buon frutto (cfr Gv 15,1-6).

Rispetto, costanza, capacità di potare per portare frutto: sono messaggi preziosi per l’anima, che ben si apprendono dai ritmi della natura, dai vitigni e dalla lavorazione. Essa comporta un’infinità di competenze, solo in parte trasmissibili in modo tecnico, “scolastico”, spesso invece legate alla condivisione di una sapienza pratica, di vita, a un’esperienza specifica da acquisire sul campo, in modo tanto più proficuo, quanto più ci si lascia coinvolgere dalla dimensione umana di ciò che si fa.

E se il rispetto e l’umanità valgono nell’uso della terra, sono ancora più decisivi nella gestione del lavoro, nella tutela delle persone e nel consumo dei prodotti, per far maturare, a livello di singoli e di aziende, quella capacità di «auto-trascendersi, infrangendo la coscienza isolata e l’autoreferenzialità», che «rende possibile ogni cura per gli altri e per l’ambiente», considerando «l’impatto provocato da ogni azione e da ogni decisione personale al di fuori di sé» (Lett. enc. Laudato si’, 208). Infatti, la «cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (ivi, 70).

Cari amici, il vino, la terra, l’abilità agricola e l’attività imprenditoriale sono doni di Dio, ma non dimentichiamo che il Creatore li ha affidati a noi, alla nostra sensibilità e alla nostra onestà, perché ne facciamo, come dice la Scrittura, una vera fonte di gioia per «il cuore dell’uomo» (cfr Sal 104,15), e di ogni uomo, non solo di quelli che hanno più possibilità. Grazie allora per aver scelto di ispirare la vostra attività a sentimenti di concordia, aiuto ai più deboli e rispetto per il creato, sull’esempio di Francesco di Assisi. In lui vi benedico e vi auguro, nel suo stile, “pace e bene”. Grazie.

Ai Membri del Comitato Nazionale per il Centenario della nascita di Don Lorenzo Milani (22 gennaio 2024)

Lun, 22/01/2024 - 09:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Do il mio cordiale benvenuto a voi che componete il Comitato Nazionale per il centenario della nascita di Don Lorenzo Milani, presieduto dalla Signora Rosy Bindi. Sono riconoscente per l’impegno collegiale che ponete affinché la testimonianza e il messaggio di Don Milani possano raggiungere tutti, in particolare le nuove generazioni. Vi ringrazio, saluto il Signor Cardinale e vorrei condividere con voi alcune riflessioni.

L’evento centrale della vita di Don Milani è la sua conversione, non dimentichiamolo. Essa permette di comprendere appieno la sua persona, dapprima nella sua ricerca inquieta e poi, dopo la completa adesione a Cristo, nella sua piena realizzazione. Il suo “sì” a Dio lo prende, lo trasforma e lo spinge a comunicarlo agli altri.

Di fronte alla salma di un giovane sacerdote, Lorenzo dice al suo padre spirituale, Don Raffaele Bensi, una parola decisiva: “ Io prenderò il suo posto”. È la risposta alla vocazione ad essere cristiano e insieme sacerdote, tanto che Adele Corradi, l’insegnante che gli è stata accanto, afferma: «Egli non ricordava nessun momento da credente in cui non pensasse di essere prete. Gli pareva che la decisione di essere prete fosse contemporanea alla conversione». [1] La conversione è il cuore di tutta l’esperienza umana e spirituale di Don Milani che lo fa credente, prete innamorato della Chiesa, fedele servitore del Vangelo nei poveri.

Don Lorenzo ha vissuto fino in fondo le Beatitudini evangeliche della povertà e dell’umiltà, lasciando i suoi privilegi borghesi, la sua ricchezza, le sue comodità, la sua cultura elitaria per farsi povero fra i poveri. E da questa scelta non si è mai sentito sminuito, perché sapeva che quella era la sua missione, Barbiana era il suo posto, tanto che, appena arrivato, acquistò lì la sua tomba.

Don Bensi, quando lo andò a trovare già gravemente ammalato e lo vide nella stanza che serviva da scuola, circondato dai suoi ragazzi, rimase colpito e scrisse: «Erano lì tutti in silenzio [...]. E lui era uno di loro, non diverso, non migliore [...]. Capii allora, più che in qualunque altro momento, il prezzo della sua vocazione, l’abisso del suo amore per quelli che aveva scelto e che lo avevano accettato. [...] Fu per me, e rimane, l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote». [2]

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia» ( Mt 5,6). Don Milani ha sperimentato anche questa beatitudine con la sua gente e i suoi allievi. La scuola è stato l’ambiente in cui operare per un fine grande, uno scopo che andava oltre: restituire la dignità agli ultimi, il rispetto, la titolarità di diritti e cittadinanza, ma soprattutto il riconoscimento della figliolanza di Dio, che tutti ci comprende. «Noi –dice ai preti in Esperienze Pastorali – abbiamo per unica ragione di vita quella di contentare il Signore e di mostrargli d’aver capito che ogni anima è un universo di dignità infinita». [3]

Don Milani è stato testimone e interprete della trasformazione sociale ed economica, del cambiamento d’epoca in cui l’industrializzazione si affermava sul mondo rurale, quando i contadini e i loro figli dovevano andare a fare gli operai, una condizione che li confinava ancora di più ai margini. Con mente illuminata e cuore aperto Don Lorenzo comprende che anche la scuola pubblica in quel contesto era discriminante per i suoi ragazzi, perché mortificava ed escludeva chi partiva svantaggiato e contribuiva nel tempo a radicare le disuguaglianze. Non era un luogo di promozione sociale, ma di selezione, e non era funzionale all’evangelizzazione, perché l’ingiustizia allontanava i poveri dalla Parola, dal Vangelo, allontanava contadini e operai dalla fede e dalla Chiesa.

Allora si interroga su come la Chiesa possa essere significativa e incidere con il suo messaggio perché i poveri non rimangano sempre più indietro. E con saggezza e amore trova la risposta nell’educazione, attraverso il suo modello di scuola, cioè mettere la conoscenza a servizio di quelli che sono gli ultimi per gli altri, i primi per il Vangelo e per lui.

Al piccolo gregge di Barbiana, alla sua gente, Don Lorenzo consegna tutta la propria vita, che prima ha consegnato a Cristo. Il motto “I Care” non è un generico “mi importa”, ma un accorato “m’importa di voi”, una dichiarazione esplicita d’amore per la sua piccola comunità; e nello stesso tempo è il messaggio che ha consegnato ai suoi scolari, e che diventa un insegnamento universale. Ci invita a non rimanere indifferenti, a interpretare la realtà, a identificare i nuovi poveri e le nuove povertà; ci invita anche ad avvicinarci a tutti gli esclusi e prenderli a cuore. Ogni cristiano dovrebbe fare in questo la sua parte.

Penso che l’esperienza di Don Milani si possa rileggere con le parole che  San Giovanni Paolo II ha utilizzato per descrivere la figura del martire: «Egli sa di avere trovato nell’incontro con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà strappargli questa certezza. Né la sofferenza né la morte violenta lo potranno fare recedere dall’adesione alla verità che ha scoperto nell’incontro con Cristo». [4]

Cari fratelli e sorelle, siamo qui a dire la nostra gratitudine a Don Lorenzo Milani, prete inquieto e inquietante, fedele al Signore e alla sua Chiesa: ringraziamo per la testimonianza che ci ha lasciato come impegnativa eredità. E grazie a voi per quanto avete fatto e state facendo in questo centenario della sua nascita per farlo conoscere e farlo ascoltare. Vi benedico di cuore. E vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie.

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[1] A. Corradi, Non so se don Lorenzo, Milano 2012, p. 81.

[2] N. Fabbretti, “Intervista a Mons. Raffaele Bensi”, Domenica del Corriere, 27 giugno 1971.

[3] Esperienze pastorali, Firenze 1957, p. 222.

[4] Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1981), 32.

 

 

Ai Membri dell'Associazione Internazionale dei giornalisti accreditati presso il Vaticano (22 gennaio 2024)

Lun, 22/01/2024 - 08:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Vi do il benvenuto, anche se qua siete di casa! Sono contento: questa è per me un’occasione per ringraziare voi, che siete un po’ i miei compagni di viaggio, per il lavoro che svolgete informando lettori, ascoltatori e spettatori sull’attività della Santa Sede. Giornalisti, operatori, fotografi, producers: siete una comunità unita da una missione. Conosco la vostra passione, il vostro amore per ciò che raccontate, la vostra fatica. Tanti di voi seguono non solo il Vaticano, ma anche l’Italia, il sud dell’Europa, il Mediterraneo, i Paesi da cui venite.

Essere giornalista è una vocazione, un po’ come quella del medico, che sceglie di amare l’umanità curandone le malattie. Così, in un certo senso, fa il giornalista, che sceglie di toccare con mano le ferite della società e del mondo. È una chiamata che nasce da giovani e che porta a capire, a mettere in luce, a raccontare. Vi auguro di tornare alle radici di questa vocazione, di farne memoria, di ricordare la chiamata che vi unisce in un compito così importante. Quanto bisogno di conoscere e di raccontare da una parte, e quanta necessità di coltivare un amore incondizionato alla verità dall’altra!

Vorrei esprimervi gratitudine non solo per ciò che scrivete e trasmettete, ma anche per la costanza e la pazienza di seguire giorno dopo giorno le notizie che arrivano dalla Santa Sede e dalla Chiesa, raccontando una istituzione che trascende il “qui e ora”, e le nostre stesse vite. Come disse San Paolo VI, ci sono “simpatia, stima e fiducia per quello che voi siete e per quello che voi fate” (cfr Discorso ai rappresentanti della stampa italiana ed estera, 29 giugno 1963). Grazie anche per i sacrifici nel seguire il Papa in giro per il mondo e nel lavorare spesso pure la domenica e i giorni di festa. Vi devo chiedere scusa per le volte in cui le notizie che in diverso modo mi riguardano vi hanno sottratto alle vostre famiglie, al gioco con i vostri figli – questo è molto importante; io, quando confesso, domando ai genitori: “Lei gioca con i figli?”: è una delle cose che un papà e una mamma devono fare sempre, giocare con i figli –, e al tempo da trascorrere con i mariti o con le mogli.

Il nostro incontro è un’occasione per riflettere sul faticoso mestiere di vaticanista nel raccontare il cammino della Chiesa, nel costruire ponti di conoscenza e di comunicazione invece che solchi di divisione e di diffidenza (cfr S. Giovanni XXIII, Discorso ai giornalisti in occasione del consiglio nazionale della federazione stampa italiana, 22 febbraio 1963).

Chi è dunque il vaticanista? Rispondo prendendo a prestito le parole di un vostro collega, che ha da poco festeggiato gli ottant’anni e ha viaggiato tanto con i Papi. Parlando del suo lavoro di vaticanista, lo ha definito «un mestiere veloce fino a risultare spietato, due volte scomodo quando si applica a un soggetto alto come la Chiesa, che i media commerciali inevitabilmente portano al loro livello […] di mercato». «In tanti anni di vaticanismo – ha aggiunto – ho appreso l’arte di cercare e narrare storie di vita, che è un modo di amare l’uomo [...]. Ho imparato l’umiltà. Ho avvicinato tanti uomini di Dio che mi hanno aiutato a credere e a restare umano. Non posso dunque che incoraggiare chi voglia avventurarsi in questa specializzazione giornalistica» (L. Accattoli, Prefazione a G. Tridente, Diventare vaticanista. Informazione religiosa ai tempi del Web, 2018, 5-7). Nonostante le difficoltà, è un bell’incoraggiamento: amare l’uomo, imparare l’umiltà.

San Paolo VI, appena eletto, nei mesi che precedevano la ripresa del Concilio, invitò i giornalisti che seguivano le vicende vaticane a immergersi nella natura e nello spirito dei fatti ai quali dedicavano il loro servizio. Esso – disse – «non dev’essere guidato, come talora accade, dai criteri che classificano le cose della Chiesa secondo categorie profane e politiche, le quali non si addicono alle cose stesse, anzi spesso le deformano, ma deve tener conto di ciò che veramente informa la vita della Chiesa, e cioè le sue finalità religiose e morali e le sue caratteristiche qualità spirituali» (Discorso ai rappresentanti della stampa). Vorrei aggiungere la delicatezza che tante volte avete nel parlare degli scandali nella Chiesa: ce ne sono e tante volte ho visto in voi una delicatezza grande, un rispetto, un silenzio quasi, dico io, “vergognoso”: grazie di questo atteggiamento.

Vi ringrazio per lo sforzo che fate nel mantenere questo sguardo che sa vedere dietro l’apparenza, che sa cogliere la sostanza, che non vuole piegarsi alla superficialità degli stereotipi e delle formule preconfezionate dell’informazione-spettacolo, le quali, alla difficile ricerca della verità, preferiscono la facile catalogazione dei fatti e delle idee secondo schemi precostituiti. Vi incoraggio ad andare avanti in questo cammino che sa coniugare l’informazione con la riflessione, il parlare con l’ascoltare, il discernimento con l’amore.

Lo stesso giornalista che ho citato sosteneva che nell’ambiente dei media «il vaticanista dovrà resistere alla nativa vocazione della comunicazione di massa a manipolare l’immagine della Chiesa, come e più d’ogni altra immagine di umanità associata. I media infatti tendono a deformare la notizia religiosa. La deformano sia con il registro alto o ideologico, sia con il registro basso o spettacolare. L’effetto d’insieme è di una duplice deformazione dell’immagine della Chiesa: che il primo registro tende a costringere sotto specie politica, il secondo tende a relegare a notizia leggera» (Prefazione).

Non è facile, ma sta qui la grandezza del vaticanista, la finezza d’animo che si aggiunge alla bravura giornalistica. La bellezza del vostro lavoro attorno a Pietro è quella di fondarlo sulla solida roccia della responsabilità nella verità, non sulle sabbie fragili del chiacchiericcio e delle letture ideologiche; che sta nel non nascondere la realtà e anche le sue miserie, senza edulcorare le tensioni ma al tempo stesso senza fare clamori inutili, bensì sforzandosi di cogliere l’essenziale, alla luce della natura della Chiesa. Quanto bene questo fa al Popolo di Dio, alla gente più semplice, alla Chiesa stessa, che ha ancora del cammino da compiere per comunicare meglio: con la testimonianza, prima ancora che con le parole. Grazie tante del vostro lavoro. Una cosa che mi fa piacere è aver imparato a conoscervi per nome; c’è qui la grande decana, e la saluto; il vice-decano, e tanti di voi che conosco per nome… Vi ringrazio tanto, pregate per me, io lo faccio per voi. Vi rinnovo il grazie e benedico voi, i vostri cari e il vostro lavoro. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me, a favore!

Angelus, 21 gennaio 2024

Dom, 21/01/2024 - 12:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo oggi narra la vocazione dei primi discepoli (cfr Mc 1,14-20). Quella di chiamare altri a unirsi alla sua missione è una delle prime cose che Gesù compie all’inizio della vita pubblica: si avvicina a dei giovani pescatori e li invita a seguirlo per «diventare pescatori di uomini» (v. 17). E questo ci dice una cosa importante: il Signore ama coinvolgerci nella sua opera di salvezza, ci vuole attivi con Lui, ci vuole responsabili e protagonisti. Un cristiano che non è attivo, che non è responsabile nell’opera dell’annuncio del Signore e che non è protagonista della sua fede non è un cristiano o, come diceva mia nonna, è un cristiano “all’acqua di rose”.

Di per sé Dio non avrebbe bisogno di noi, ma lo fa, nonostante ciò comporti il farsi carico di tanti nostri limiti: tutti siamo limitati, anzi peccatori, e Lui se ne fa carico. Guardiamo ad esempio a quanta pazienza ha avuto con i discepoli: spesso non comprendevano le sue parole (cfr Lc 9,51-56), a volte non andavano d’accordo tra loro (cfr Mc 10,41), per molto tempo non riuscivano ad accogliere degli aspetti essenziali della sua predicazione, per esempio il servizio (cfr Lc 22,27). Eppure Gesù li ha scelti e ha continuato a credere in loro. Questo è importante, il Signore ci ha scelto per essere cristiani. E noi siamo peccatori, ne facciamo una dopo l’altra, ma il Signore continua a credere in noi. Questo è meraviglioso.

In effetti, portare la salvezza di Dio a tutti è stata per Gesù la felicità più grande, la sua missione, il senso della sua esistenza (cfr Gv 6,38) o, come dice Lui, il suo cibo (cfr Gv 4,34). E in ogni parola e azione con cui ci uniamo a Lui, nella bellissima avventura di donare amore, la luce e la gioia si moltiplicano (cfr Is 9,2): non solo attorno a noi, ma anche in noi. Annunciare il Vangelo, dunque, non è tempo perso: è essere più felici aiutando gli altri a essere felici; è liberarsi da sé stessi aiutando gli altri ad essere liberi; è diventare migliori aiutando gli altri a essere migliori!

Chiediamoci allora: io mi soffermo ogni tanto per fare memoria della gioia che è cresciuta in me e attorno a me quando ho accolto la chiamata a conoscere e a testimoniare Gesù? E quando prego, ringrazio il Signore per avermi chiamato a rendere felici gli altri? Infine: desidero far gustare a qualcuno, attraverso la mia testimonianza e la mia gioia, far gustare quanto è bello amare Gesù?

La Vergine Maria ci aiuti ad assaporare la gioia del Vangelo.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

I prossimi mesi ci condurranno all’apertura della Porta Santa, con cui daremo inizio al Giubileo. Vi chiedo di intensificare la preghiera per prepararci a vivere bene questo evento di grazia e sperimentarvi la forza della speranza di Dio. Per questo iniziamo oggi l’Anno della preghiera, cioè un anno dedicato a riscoprire il grande valore e l’assoluto bisogno della preghiera nella vita personale, nella vita della Chiesa e del mondo. Saremo aiutati anche dai sussidi che il Dicastero per l’Evangelizzazione metterà a disposizione.

In questi giorni preghiamo specialmente per l’unità dei cristiani e non stanchiamoci di invocare il Signore per la pace in Ucraina, in Israele e in Palestina, e in tante altre parti del mondo: a soffrirne la mancanza sono sempre i più deboli. Penso ai piccoli, ai tantissimi bambini feriti e uccisi, a quelli privati di affetti, privati di sogni e di futuro. Sentiamo la responsabilità di pregare e di costruire la pace per loro!

Ho appreso con dolore la notizia del rapimento, ad Haiti, di un gruppo di persone, tra cui sei Religiose: nel chiederne accoratamente il rilascio, prego per la concordia sociale nel Paese e invito tutti a far cessare le violenze, che provocano tanta sofferenza a quella cara popolazione.

Saluto tutti voi che siete venuti da Roma, dall’Italia e da tante parti del mondo: in particolare, i pellegrini dalla Polonia, dall’Albania, dalla Colombia, gli studenti dell’Istituto Pedro Mercedes di Cuenca (Spagna), gli universitari americani che studiano a Firenze, il gruppo de Quinceañeras de Panamà, i sacerdoti e i migranti dell’Ecuador, ai quali assicuro la preghiera per la pace per il loro Paese. Saluto i fedeli di Massafra e Perugia; l’Unione Cattolica Italiana Insegnanti, Dirigenti e Formatori; il gruppo Scout Agesci di Palmi.

Auguro a tutti una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

Domenica della Parola di Dio (21 gennaio 2024)

Dom, 21/01/2024 - 09:30

Abbiamo ascoltato che «Gesù disse loro: “Venite dietro a me” […]. E subito lasciarono le reti e lo seguirono» (Mc 1,17-18). È grande la forza della Parola di Dio, come abbiamo sentito anche nella prima Lettura: «Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: “Alzati, va’ a Ninive […] e annuncia loro” […]. Giona si alzò e andò […] secondo la parola del Signore» (Gn 3,1-3). La Parola di Dio sprigiona la potenza dello Spirito Santo. È una forza che attira a Dio, come accaduto a quei giovani pescatori, folgorati dalle parole di Gesù; ed è una forza che invia agli altri, come per Giona, che va verso quanti sono lontani dal Signore. La Parola, dunque, attira a Dio e invia agli altri. Attira a Dio e invia agli altri: ecco il suo dinamismo. Non ci lascia chiusi in noi stessi, ma dilata il cuore, fa invertire la rotta, ribalta le abitudini, apre scenari nuovi, dischiude orizzonti impensati.

Fratelli e sorelle, la Parola di Dio desidera fare questo in ognuno di noi. Come per i primi discepoli, che accogliendo le parole di Gesù lasciano le reti e cominciano un’avventura stupenda, così anche sulle rive della nostra vita, accanto alle barche dei familiari e alle reti del lavoro, la Parola suscita la chiamata di Gesù. Egli ci chiama a prendere il largo con Lui per gli altri. Sì, la Parola suscita la missione, ci fa messaggeri e testimoni di Dio per un mondo pieno di parole, ma assetato di quella Parola che spesso ignora. La Chiesa vive di questo dinamismo: è chiamata da Cristo, attirata da Lui, ed è inviata nel mondo a testimoniarlo. Questo è il dinamismo nella Chiesa.

Non possiamo fare a meno della Parola di Dio, della sua forza mite che, come in un dialogo, tocca il cuore, s’imprime nell’anima, la rinnova con la pace di Gesù, che rende inquieti per gli altri. Se guardiamo agli amici di Dio, ai testimoni del Vangelo nella storia, ai santi, vediamo che per tutti la Parola è stata decisiva. Pensiamo al primo monaco, Sant’Antonio, che, colpito da un passo del Vangelo mentre era a Messa, lasciò tutto per il Signore; pensiamo a Sant’Agostino, la cui vita svoltò quando una parola divina gli risanò il cuore; pensiamo a Santa Teresa di Gesù Bambino, che scoprì la sua vocazione leggendo le lettere di San Paolo. E penso al santo di cui porto il nome, Francesco d’Assisi, il quale, dopo aver pregato, legge nel Vangelo che Gesù invia i discepoli a predicare ed esclama: «Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!» (Tommaso da Celano, Vita prima IX, 22). Sono vite cambiate dalla Parola di vita, dalla Parola del Signore.

Ma mi domando: perché per molti di noi non accade lo stesso? Tante volte ascoltiamo la Parola di Dio, entra in un orecchio ed esce dall’altro: perché? Forse perché, come ci mostrano questi testimoni, bisogna non essere “sordi” alla Parola. È il nostro rischio: travolti da mille parole, ci lasciamo scivolare addosso pure la Parola di Dio: la sentiamo, ma non la ascoltiamo; la ascoltiamo, ma non la custodiamo; la custodiamo, ma non ci lasciamo provocare per cambiare. Soprattutto, la leggiamo ma non la preghiamo, mentre «la lettura della sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo» (Dei Verbum, 25). Non dimentichiamo le due dimensioni fondanti della preghiera cristiana: l’ascolto della Parola e l’adorazione del Signore. Facciamo spazio alla Parola di Gesù, alla Parola di Gesù pregata e accadrà per noi come ai primi discepoli. Ritorniamo dunque al Vangelo di oggi, che ci riporta due gesti che scaturirono dalla Parola di Gesù: «lasciarono le reti e lo seguirono» (Mc 1,18). Lasciarono e seguirono. Soffermiamoci brevemente su questo.

Lasciarono. Che cosa hanno lasciato? La barca e le reti, cioè la vita che avevano fatto fino a quel momento. Tante volte fatichiamo a lasciare le nostre sicurezze, le nostre abitudini, perché rimaniamo impigliati in esse come i pesci nella rete. Ma chi sta a contatto con la Parola guarisce dai lacci del passato, perché la Parola viva reinterpreta la vita, risana anche la memoria ferita innestando il ricordo di Dio e delle sue opere per noi. La Scrittura ci fonda nel bene, ci ricorda chi siamo: figli di Dio salvati e amati. “Le fragranti parole del Signore” (cfr S. Francesco di Assisi, Lettera ai fedeli) sono come il miele, rendono gustosa la vita: suscitano la dolcezza di Dio, nutrono l’anima, allontanano la paura, vincono la solitudine. E come fecero lasciare a quei discepoli la ripetitività di una vita fatta di barche e di reti, così in noi rinnovano la fede, purificandola e liberandola da tante scorie, riportandola alle origini, alla purezza sorgiva del Vangelo. Con il racconto delle opere di Dio per noi, la Sacra Scrittura scioglie gli ormeggi di una fede paralizzata e ci fa riassaporare la vita cristiana com’è veramente: una storia di amore con il Signore.

I discepoli, dunque, lasciarono; e poi seguirono – lasciarono e seguirono: dietro al Maestro fecero passi in avanti. Infatti la sua Parola, mentre libera dagli ingombri del passato e del presente, fa maturare nella verità e nella carità: ravviva il cuore, lo scuote, lo purifica dalle ipocrisie e lo riempie di speranza. La Bibbia stessa attesta che la Parola è concreta ed efficace: «come la pioggia e la neve» per il terreno (cfr Is 55,10-11); «come il fuoco», «come un martello che spacca la roccia» (Ger 23,29); come una spada tagliente che «discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12); come un seme incorruttibile (1 Pt 1,23) che, piccolo e nascosto, germoglia e porta frutto (cfr Mt 13). «Nella parola di Dio è insita tanta efficacia e potenza, da essere […] il nutrimento dell’anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 21).

Fratelli e sorelle, la Domenica della Parola di Dio ci aiuti a tornare con gioia alle sorgenti della fede, che nasce dall’ascolto di Gesù, Verbo del Dio vivente. Mentre si dicono e leggono in continuazione parole sulla Chiesa, ci aiuti a riscoprire la Parola di vita che risuona nella Chiesa! Altrimenti finiamo per parlare più di noi che di Lui; e tante volte al centro rimangono i nostri pensieri e i nostri problemi, anziché Cristo con la sua Parola. Ritorniamo alle sorgenti per offrire al mondo l’acqua viva che non trova; e, mentre la società e i social accentuano la violenza delle parole, noi stringiamoci alla mitezza della Parola di Dio che salva, che è mite, che non fa rumore, che entra nel cuore.

E poniamoci, infine, qualche domanda. Io, quale posto riservo alla Parola di Dio nel luogo dove abito? Lì ci saranno libri, giornali, televisori, telefoni, ma dov’è la Bibbia? Nella mia stanza, tengo il Vangelo a portata di mano? Lo leggo ogni giorno per ritrovarvi la rotta della vita? Porto nella borsa un piccolo esemplare del Vangelo per leggerlo? Tante volte ho consigliato di avere sempre il Vangelo con sé, in tasca, nella borsa, nel telefonino: se Cristo mi è caro più di ogni cosa, come posso lasciarlo a casa e non portare con me la sua Parola? E un’ultima domanda: ho letto per intero almeno uno dei quattro Vangeli? Il Vangelo è il libro della vita, è semplice e breve, eppure tanti credenti non ne hanno mai letto uno dall’inizio alla fine.

Fratelli e sorelle, Dio, dice la Scrittura, è «principio e autore della bellezza» (Sap 13,3): lasciamoci conquistare dalla bellezza che la Parola di Dio porta nella vita.

Ai Membri dell'Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali (ASMEL) (20 gennaio 2024)

Sab, 20/01/2024 - 10:15

Gentili Signori e Signore, benvenuti!

Con piacere incontro la vostra Associazione, nata nel 2010 per contribuire al buon funzionamento degli Enti Locali italiani, secondo il principio di sussidiarietà, caro alla dottrina sociale della Chiesa.

I territori da cui provenite sperimentano alcune delle contraddizioni della società attuale e del suo modello di sviluppo. I piccoli Comuni, soprattutto quelli che fanno parte delle cosiddette aree interne, e che sono la maggior parte, sono spesso trascurati e si trovano in condizione di marginalità. I cittadini che li abitano, una porzione significativa della popolazione, scontano divari importanti in termini di opportunità, e questo resta una fonte di disuguaglianza.

Alla radice di questi divari c’è il fatto che risulta troppo dispendioso offrire a questi territori la stessa dotazione di risorse delle altre aree del Paese. Vediamo qui un esempio concreto di cultura dello scarto: «tutto ciò che non serve al profitto viene scartato» [1]. Si innesca così un giro vizioso: la mancanza di opportunità spinge spesso la parte più intraprendente della popolazione ad andarsene e questo rende i territori marginali sempre meno interessanti, sempre più abbandonati a sé stessi. A restare sono soprattutto gli anziani e coloro che più faticano a trovare alternative. Di conseguenza, cresce in questi territori il bisogno di Stato sociale, mentre diminuiscono le risorse per darvi risposta.

C’è un altro aspetto di questa dinamica. È nelle aree interne, marginali, che si trova la maggior parte del patrimonio naturale (foreste, aree protette, e così via): sono dunque di importanza strategica in termini ambientali. Ma lo spopolamento progressivo rende più difficile la cura del territorio, che da sempre gli abitanti di queste zone hanno portato avanti. I territori abbandonati diventano più fragili, e il loro dissesto diventa causa di calamità e di emergenze, specie oggi con gli eventi estremi sempre più frequenti: ad esempio piogge torrenziali, inondazioni, frane; siccità e incendi; tempeste di vento e così via. Guardando questi territori, abbiamo conferma del fatto che ascoltare il grido della terra significa ascoltare il grido dei poveri e degli scartati, e viceversa: nella fragilità delle persone e dell’ambiente riconosciamo che tutto è connesso – tutto è connesso! –, che la ricerca di soluzioni richiede di leggere insieme fenomeni che spesso sono pensati come separati. Tutto è connesso.

Queste cose voi le conoscete molto bene. Oggi voglio ringraziarvi per il vostro impegno e per il vostro lavoro, che cerca di contribuire a tutelare la dignità delle persone e a curare la casa comune, anche con risorse scarse e tra mille difficoltà. Di questo impegno c’è un bisogno crescente, per cui vi invito a non abbassare la guardia e a non lasciarvi scoraggiare.

C’è in gioco qualcosa di più grande che la qualità della vita e la cura dei territori da cui provenite, che pure meritano ogni sforzo. Da sempre, e anche oggi, sono le aree marginali quelle che possono convertirsi in laboratori di innovazione sociale, a partire da una prospettiva – quella dei margini – che consente di vedere i dinamismi della società in modo diverso, scoprendo opportunità dove altri vedono solo vincoli, o risorse in ciò che altri considerano scarti. Le pratiche sociali innovative, che riscoprono forme di mutualità e reciprocità e che riconfigurano il rapporto con l’ambiente nella chiave della cura – dalle nuove forme di agricoltura alle esperienze di welfare di comunità – chiedono di essere riconosciute e sostenute, per alimentare un paradigma alternativo a vantaggio di tutti.

Pensando al vostro ambito di impegno, vorrei suggerirvi un filone tra i molti a cui prestare attenzione: quello della ricerca di nuovi rapporti tra pubblico e privato, in particolare il privato sociale, per superare impostazioni vecchie e sfruttare appieno le possibilità che oggi la legislazione prevede. La scarsità delle risorse nelle aree marginali rende più disponibili a collaborare per ciò che appare come un bene comune; nasce così l’opportunità di aprire dei cantieri di partecipazione, favorendo un rinnovamento della democrazia nel suo significato sostanziale.

Un altro filone promettente è quello delle nuove tecnologie, in particolare il ricorso alle diverse forme di intelligenza artificiale. Stiamo scoprendo quanto possano rivelarsi potenti come strumenti di morte. Possiamo immaginare quanto benefica questa potenza potrebbe risultare se utilizzata non per la distruzione, ma nella logica della cura [2]: cura delle persone, cura delle comunità, cura dei territori e cura della casa comune.

E parlando della cura, mi preoccupano le poche nascite. C’è una “cultura dello spopolamento” che viene dalle poche nascite di bambini. È vero, tutti possono avere un cagnolino, ma occorre fare bambini. L’Italia, la Spagna… hanno bisogno di bambini. Pensate che uno di questi Paesi mediterranei ha l’età media di 46 anni! Noi dobbiamo prendere sul serio il problema delle nascite, prenderlo sul serio perché si gioca lì il futuro della patria, si gioca lì il futuro. Fare figli è un dovere per sopravvivere, per andare avanti. Pensate a questo: non è una pubblicità di un’agenzia per le nascite, ma voglio sottolineare il dramma delle poche nascite, che va pensato molto seriamente.

Cari amici, vi auguro ogni bene per il vostro lavoro. Di cuore benedico voi e i vostri cari. E per favore, vi chiedo di pregare per me, a mio favore. Grazie!

[Benedizione]

 

[1] Messaggio ai partecipanti al Convegno nazionale della CEI, Salerno, 24-26 ottobre 2014.

[2] Cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2024, 1° gennaio 2024, 6.

 

Ai Membri del Consiglio Nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo (20 gennaio 2024)

Sab, 20/01/2024 - 09:45

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Do il mio benvenuto a voi, Presidente e membri del Consiglio nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo. E tramite voi, saluto tutti coloro che aderiscono a questo movimento ecclesiale.

Come sapete, in questi anni ho promosso CHARIS come organismo di servizio internazionale per il Rinnovamento Carismatico Cattolico. E anche recentemente, nel novembre scorso, ho avuto modo di parlare ai partecipanti all’incontro organizzato da CHARIS. Vi incoraggio a continuare a camminare su questa strada di comunione e a fare tesoro delle indicazioni che vi ho lasciato.

Oggi con voi, che vi prendete cura del movimento a livello nazionale, vorrei condividere uno sguardo pastorale sulla vostra presenza e sul vostro servizio. Prima di tutto ringrazio il Signore e ringrazio voi per il bene che le comunità del Rinnovamento seminano in mezzo al santo popolo fedele di Dio, favorendo anche una spiritualità semplice e gioiosa. E sottolineo soprattutto due aspetti che sono importanti: il servizio alla preghiera, specialmente di adorazione; e il servizio all’evangelizzazione. Preghiera ed evangelizzazione.

Il movimento carismatico per sua natura dà spazio e risalto alla preghiera, in particolare alla preghiera di lode, e questo è molto importante. In un mondo dominato dalla cultura dell’avere e dell’efficienza, e anche in una Chiesa a volte troppo preoccupata dell’organizzazione – state attenti a questo! –, abbiamo tutti bisogno di dare spazio al rendimento di grazie, alla lode e allo stupore di fronte alla grazia di Dio. Vi chiedo, fratelli e sorelle, di continuare a servire la Chiesa in questo, specialmente promuovendo la preghiera di adorazione. Un’adorazione in cui sia predominante il silenzio, in cui la Parola di Dio prevalga sulle nostre parole, insomma un’adorazione in cui al centro ci sia veramente Lui, il Signore, e non noi.

Questo è il primo aspetto per cui vi ringrazio e vi incoraggio: quello della preghiera. Il secondo è quello dell’evangelizzazione, che pure appartiene, per così dire, al DNA del movimento carismatico. Lo Spirito Santo, accolto nel cuore e nella vita, non può che aprire, muovere, far uscire; lo Spirito sempre spinge a comunicare il Vangelo, a uscire, e lo fa con la sua fantasia inesauribile. A noi spetta di essere docili e collaborare con Lui, come ci raccontano gli Atti degli Apostoli di Stefano, Filippo, Barnaba, Pietro, Paolo e gli altri. Questi non avevano un manuale per come procedere: è stato lo Spirito a spingerli e hanno fatto tante cose grandi. E ricordate sempre che il primo annuncio si fa con la testimonianza della vita! A che serve fare lunghe preghiere e tanti bei canti, se poi non so essere paziente con il mio prossimo, se non so stare vicino alla mamma che è sola – è il quarto comandamento: io mi scandalizzo di uomini e donne che hanno i genitori in una casa di ricovero e non vanno a trovarli –, o a quella persona in difficoltà… La carità concreta, il servizio nascosto è sempre la verifica del nostro annuncio: parole, gesti e cantici, senza la concretezza della carità, non vanno.

Preghiera ed evangelizzazione. Ma se voi siete venuti dal Papa non è solo per essere confermati in queste due strade che appartengono al vostro carisma e alla vostra storia. Il Successore di Pietro ha pure lui un carisma, che è quello della comunione, e soprattutto su questo vi può e deve confermare. Comunione anzitutto con i vostri Vescovi. Lo sapete bene, in ogni Chiesa particolare i movimenti ecclesiali devono ricercare sempre la comunione effettiva. E questo cosa vuol dire? Vuol dire che la comunità del Rinnovamento dev’essere al servizio dell’intera comunità diocesana, dell’intera comunità parrocchiale, secondo le indicazioni pastorali del Vescovo. Comunione inoltre con le altre realtà ecclesiali, associazioni, movimenti, gruppi: dare testimonianza di fraternità, di stima reciproca nella diversità, di collaborazione nell’impegno per iniziative comuni, al servizio del popolo di Dio e anche su questioni sociali in cui è in gioco la dignità delle persone. Vi ringrazio dell’impegno che già ponete in questo e vi esorto ad essere costruttori di comunione, prima di tutto tra voi: state attenti al chiacchiericcio. Comunione tra voi, questo è molto importante; e anche, comunione nell’ambito del vostro movimento, e poi nelle parrocchie e nelle diocesi.

Cari fratelli e sorelle, grazie di essere venuti. Andate avanti con gioia. La Madonna vi custodisca, sia sempre in mezzo a voi come tra i primi discepoli nel Cenacolo (cfr At 1,14). Io ho avuto una “storia particolare” con voi, perché all’inizio il movimento non mi piaceva, dicevo che era una scuola di samba e non un movimento ecclesiale. Poi da Arcivescovo ho visto come operavano, come riempivano la cattedrale durante gli incontri e ho incominciato ad avere un grande apprezzamento per voi. Andate avanti, ma non come scuola di samba, come movimento ecclesiale! Di cuore benedico voi e il vostro servizio. E vi chiedo per favore di pregare per me. Pregare con il corpo, con tutto, per me.

[Benedizione]

Alla Delegazione della Diocesi di Belluno-Feltre, nel 60° anniversario del disastro del Vajont (19 gennaio 2024)

Ven, 19/01/2024 - 11:30

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Vi accolgo con gioia e saluto tutti voi che, accompagnati dal vostro Vescovo e dal Presidente della Provincia di Belluno, siete venuti qui pellegrini. Un cordiale benvenuto ai sacerdoti e al Presidente dell’Associazione “Vajont – il futuro della memoria”. Voi portate a Roma, presso la tomba dell’Apostolo Pietro, un pesantissimo carico di memoria e di sofferenza.

Vorrei anzitutto esprimervi la mia vicinanza e ringraziarvi per quello che fate e per quello che siete: già solo con la vostra presenza rappresentate un’ondata di speranza. Se sessant’anni fa, esattamente il 9 ottobre del 1963, una catastrofica ondata spazzò via interi paesi e frazioni, provocando 1910 vittime, voi siete un’onda di vita. Infatti a quell’ondata di annientamento e distruzione avete risposto con il coraggio della memoria e della ricostruzione. Penso a tutte le gocce silenziose che hanno formato questa grande ondata di bene: ai soccorritori, ai ricostruttori, ai tanti che non si sono lasciati imprigionare dal dolore ma hanno saputo ricominciare. Voi siete artefici, siete testimoni di questi semi di risurrezione, che forse non fanno molta notizia, ma sono preziosi agli occhi di Dio, “specialista in ripartenze”, Lui che da un sepolcro di morte ha avviato una storia eterna di vita nuova. Grazie per la vostra testimonianza.

Per voi immagino sia accaduto che quel dolore incalcolabile e inenarrabile, come un’enorme lastra di ghiaccio nel cuore, grazie al calore della vostra coesione, alla vicinanza di molti e all’aiuto di Dio, si sia lentamente scongelato, per irrigare poi nuovamente la società. E, com’è nell’indole della vostra gente, avete fatto tanto bene senza molte parole, ma con grande impegno e concretezza, rimboccandovi le maniche: così avete riedificato con cura lì dove l’incuria aveva provocato distruzione.

Riflettendo sul disastro del Vajont colpisce un aspetto: a causare la tragedia non furono sbagli di progettazione o di realizzazione della diga, ma il fatto stesso di voler costruire un bacino artificiale nel luogo sbagliato. E tutto ciò perché? In ultima analisi per aver anteposto la logica del guadagno alla cura dell’uomo e dell’ambiente in cui vive; così che, se la vostra ondata di speranza è mossa dalla fraternità, quell’ondata che portò disperazione era provocata dall’avidità. E l’avidità distrugge, mentre la fraternità costruisce.

Cari amici, fratelli e sorelle, ciò è estremamente attuale. Non mi stanco di ripetere che la cura del creato non è un semplice fattore ecologico, ma una questione antropologica: ha a che fare con la vita dell’uomo, così come il Creatore l’ha pensata e disposta, e riguarda il futuro di tutti, della società globale in cui siamo immersi. E voi, di fronte alla tragedia che può scaturire dallo sfruttamento dell’ambiente, testimoniate la necessità di prendersi cura del creato. Ciò è essenziale oggi, mentre si sta sgretolando la casa comune, e il motivo è ancora una volta lo stesso: l’avidità di profitto, un delirio di guadagno e di possesso che sembra far sentire l’uomo onnipotente. Ma è un grande inganno questo, perché siamo creature e la nostra natura ci chiede di muoverci nel mondo con rispetto e con cura, senza annullare, anzi custodendo il senso del limite, che non rappresenta una diminuzione, ma è possibilità di pienezza. Chi non sa custodire il limite, mai potrà andare avanti.

Vorrei condividere con voi ancora un pensiero. Quest’anno ricorre l’ottavo centenario della composizione del Cantico delle creature di San Francesco, Patrono d’Italia. È anche il testo che ha inaugurato la letteratura italiana. In quella magnifica lauda il Poverello di Assisi chiama il sole, la luna, le stelle, il vento, il fuoco ed altri elementi, fratelli e sorelle, e li chiama così perché le creature sono parte di un’unica “rete viva di bene”, disposta amorevolmente dal Signore per noi. Il primo biografo attesta infatti di Francesco: «Abbraccia tutti gli esseri creati con un amore e una devozione quale non si è mai udito» (Tommaso da Celano, Vita seconda, CXXIV, 165: FF 750). Ebbene, nel Cantico delle creature egli loda il Signore «per sor’Acqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta» (FF 263). Utile e umile, eppure diventata tremenda e distruttiva nel caso del Vajont, oppure inaccessibile per tanti che oggi, nel mondo, soffrono la sete o non hanno acqua potabile. Abbiamo bisogno dello sguardo contemplativo, dello sguardo rispettoso di San Francesco per riconoscere la bellezza del creato e saper dare alle cose il giusto ordine, per smettere di devastare l’ambiente con logiche mortifere di avidità e collaborare fraternamente allo sviluppo della vita. Voi lo fate, custodendo la memoria e testimoniando come la vita possa risorgere proprio là, dove tutto era stato inghiottito dalla morte.

Cari fratelli e sorelle, vi rinnovo per questo la gratitudine, ammirato dalla consistenza benefica e tenace del vostro tessuto comunitario. Vi benedico di cuore. E vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie.

Alla Delegazione della Federazione Internazionale Università Cattoliche (FIUC) (19 gennaio 2024)

Ven, 19/01/2024 - 11:00

Eminenza, Eccellenze,
cari fratelli e sorelle!

Avrei da leggere un discorso lungo, ma ho il respiro un po’ affannato; vedete, ancora questo raffreddore che non se ne va! Mi prendo la libertà di consegnare il testo a voi così che lo leggiate. E grazie, grazie tante. Grazie: vorrei ringraziare per questo incontro, per il bene che fanno le università, le nostre università cattoliche: seminare la scienza, la Parola di Dio e l’umanesimo vero. Vi ringrazio tanto. E non stancatevi di andare avanti: avanti sempre, con la missione tanto bella delle università cattoliche. Non è la confessionalità che dà loro identità: è un aspetto, ma non l’unico; è forse quell’umanesimo chiaro, quell’umanesimo che fa capire che l’uomo ha dei valori e che vanno rispettati: questa è forse la cosa più bella e più grande delle vostre università. Grazie tante.

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Discorso consegnato

Sono lieto di unirmi alla celebrazione del centenario della Federazione Internazionale delle Università Cattoliche (F.I.U.C.). Cent’anni di cammino sono motivo di tanta gratitudine! Saluto e ringrazio il Cardinale Josè Tolentino de Mendonça e la Professoressa Gil, Presidente della Federazione.

Fu Pio XI a benedire la prima associazione di diciotto Università Cattoliche, nel 1924. E un Decreto, di molto posteriore, dell’allora Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi riferisce – cito – che «si associarono con l’intenzione che i rettori delle medesime, […] con maggior frequenza, trattassero insieme gli affari […] da doversi promuovere comunemente a favore del loro altissimo fine» (29 giugno 1948). Venticinque anni dopo, il Venerabile Pio XII istituì la Federazione delle Università Cattoliche.

Da queste “radici” emergono due aspetti che vorrei evidenziare: il primo è l’esortazione a lavorare in rete. Oggi esistono nel mondo quasi duemila Università Cattoliche. Immaginiamo le potenzialità che potrebbe sviluppare una collaborazione più efficace e più operativa, rafforzando il sistema universitario cattolico. In un tempo di grande frammentazione, dobbiamo avere l’audacia di andare controcorrente, globalizzando la speranza, l’unità e la concordia, al posto dell’indifferenza, delle polarizzazioni e dei conflitti. Il secondo aspetto è il fatto che la Federazione – come scrisse Pio XII – viene istituita «dopo la guerra più terribile», come strumento che apporta «alla conciliazione e alla formazione della pace e della carità tra gli uomini» (Lett. ap. Catholicas studiorum Universitates, 27 luglio 1949). Purtroppo, questo centenario lo celebriamo ancora in uno scenario di guerra, la terza guerra mondiale a pezzi. Pertanto è essenziale che le Università Cattoliche siano protagoniste nella costruzione della cultura della pace, nelle sue molteplici dimensioni da affrontare in modo interdisciplinare.

Nella magna carta delle Università Cattoliche, la Costituzione Apostolica Ex corde EcclesiaeSan Giovanni Paolo II esordisce con l’affermazione piuttosto sorprendente che l’Università Cattolica nasce «dal cuore della Chiesa» (n. 1). Forse sarebbe stato più prevedibile che dicesse che essa scaturisce dall’intelligenza cristiana. Ma il Pontefice dà la priorità al cuore: ex corde Ecclesiae. In effetti, l’Università Cattolica, essendo «uno dei migliori strumenti che la Chiesa offre alla nostra epoca» (ivi, 10), non può che essere espressione di quell’amore che anima ogni azione della Chiesa, cioè l’amore di Dio per la persona umana.

In un tempo nel quale anche l’istruzione sta purtroppo diventando un business e grandi fondi economici senza volto investono nelle scuole e nelle università come si fa nella borsa, le istituzioni della Chiesa devono dimostrare di avere una natura diversa e di muoversi secondo un’altra logica. Un progetto educativo non si basa solo su un programma perfetto, su un’efficiente dotazione di strumenti o su una buona gestione aziendale. Nell’università deve pulsare una passione più grande, si deve vedere una comune ricerca della verità, un orizzonte di senso, e tutto vissuto in una comunità di conoscenza dove la generosità dell’amore, per così dire, si tocca con mano.

La filosofa Hannah Arendt, che ha studiato a fondo il concetto d’amore in Sant’Agostino, sottolinea che quel grande maestro descriveva l’amore con la parola appetitus, intesa come inclinazione, desiderio, tensione-verso. Per questo vi dico: non perdete l’appetito! Mantenete l’intensità del primo amore! Che le Università Cattoliche non sostituiscano il desiderio con il funzionalismo o la burocrazia. Non basta assegnare titoli accademici: è necessario risvegliare e custodire in ogni persona il desiderio di essere. Non basta modellare carriere competitive: occorre promuovere la scoperta di vocazioni feconde, ispirare percorsi di vita autentica e integrare il contributo di ciascuno nelle dinamiche creative della comunità. Certamente bisogna pensare l’intelligenza artificiale, ma anche quella spirituale, senza la quale l’uomo rimane uno straniero per sé stesso. L’università è una risorsa troppo importante per vivere soltanto “al passo coi tempi” e rinviando la responsabilità che i grandi bisogni umani e i sogni dei giovani rappresentano.

Mi piace ricordare una favola raccontata dallo scrittore Franz Kafka, morto cent’anni fa. Il protagonista è un topolino che ha paura della vastità del mondo e cerca una comoda protezione tra due muri uno a destra e l’altro a sinistra. A un certo punto, però, si accorge che  i muri cominciano ad avvicinarsi l’uno all’altro e lui rischia di rimanere schiacciato. Quindi inizia a correre ma, in fondo, intravede una trappola per topi che lo aspetta. È allora che ascolta il consiglio del gatto che gli dice: “Non devi fare altro che cambiare direzione”. Disperato, dà ascolto al gatto, che se lo mangia.

Non possiamo affidare alla paura la gestione delle nostre università; e sfortunatamente questo è più frequente di quanto si pensi. La tentazione di chiudersi dietro i muri, in una bolla sociale sicura, evitando i rischi o le sfide culturali, voltando le spalle alla complessità della realtà può sembrare la strada più affidabile. Questa è mera illusione! La paura divora l’anima. Non circondate mai l’università con muri di paura. Non permettete che un’Università Cattolica si limiti a replicare i muri tipici delle società in cui viviamo: quelli della disuguaglianza, della disumanizzazione, dell’intolleranza e dell’indifferenza, di tanti modelli che mirano a rafforzare l’individualismo e non investono nella fraternità.

Un’università che si protegge all’interno delle mura della paura può raggiungere un livello prestigioso, riconosciuto e apprezzato, occupando i primi posti nelle classifiche di produzione accademica. Ma, come diceva il pensatore Miguel de Unamuno, «il sapere per il sapere: questo è disumano». Dobbiamo sempre chiederci: a cosa serve la nostra scienza? Che potenziale trasformativo ha la conoscenza che produciamo? Di cosa e di chi siamo al servizio? La neutralità è un’illusione. Un’Università Cattolica deve fare delle scelte, delle scelte che riflettano il Vangelo. Deve prendere posizione e dimostrarlo con le sue azioni, in modo limpido; “sporcarsi le mani” evangelicamente nella trasformazione del mondo e al servizio della persona umana.

Di fronte a un’assemblea così qualificata, composta da Gran Cancellieri, Rettori e altre autorità accademiche, voglio ringraziare per tutto ciò che le Università Cattoliche stanno già facendo. Quanto impegno e innovazione, quanta intelligenza e studio mettete in quella che è la triplice missione dell’università: l’insegnamento, la ricerca e la restituzione alla comunità! Sì, voglio davvero ringraziarvi. Ma voglio anche chiedere il vostro aiuto. Sì, vi chiedo di aiutare la Chiesa, in questo momento storico, a illuminare le più profonde aspirazioni umane con le ragioni dell’intelligenza e le “ragioni della speranza” (cfr 1 Pt 3,15); di aiutare la Chiesa a condurre senza paura dialoghi sui grandi temi contemporanei. Aiutateci a tradurre culturalmente, in un linguaggio aperto alle nuove generazioni e ai nuovi tempi, la ricchezza dell’ispirazione cristiana; a identificare le nuove frontiere del pensiero, della scienza e della tecnologia e ad abitarle con equilibrio e saggezza. Aiutateci a costruire alleanze intergenerazionali e interculturali nella cura della casa comune, in una visione di ecologia integrale, che dia un’effettiva risposta al grido della terra e al grido dei poveri.

Cari amici della FIUC, in tante cappelle delle vostre Università si trova un’immagine della Madonna Sedes Sapientiae. Vi invito a guardarla con tenerezza e a tenere lo sguardo fissato su di lei. Qual è il segreto della Signora della Sapienza? È portare Gesù, che è la Sapienza di Dio e ci offre i criteri per costruire ogni sapienza. Fissate lo sguardo sul cuore di Maria; che lei possa accompagnare voi, le vostre comunità accademiche e i vostri progetti. Vi benedico di cuore. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

Alla Delegazione Ecumenica dalla Finlandia (19 gennaio 2024)

Ven, 19/01/2024 - 09:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Rivolgo il mio cordiale benvenuto a tutti voi, membri della Delegazione ecumenica finlandese: «Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo» (Rm 1,7).

Sono lieto che anche quest’anno siate venuti a Roma come pellegrini per celebrare insieme la festa di Sant’Enrico, nella ormai collaudata forma ecumenica. Saluto in particolare coloro che per la prima volta partecipano a questo pellegrinaggio; mentre per la prima volta accolgo te, caro fratello Raimo, quale nuovo Vescovo cattolico di Helsinki: che il Signore benedica il tuo ministero!

Caro Bishop Åstrand, La ringrazio di cuore per le riflessioni che Lei sempre ben condivide, ricche di riferimenti alle testimonianze dei santi e di spirito ecumenico. E sono grato anche per i doni, molto ben pensati.

Mi hanno colpito le sue riflessioni sul valore del cammino e sulla Chiesa pellegrina. In quanto membri della comunità dei battezzati, siamo in cammino e la nostra meta comune è Gesù Cristo. E questa meta non è lontana, non è irraggiungibile, perché il nostro Signore ci è venuto incontro nella sua misericordia, si è fatto vicino nell’Incarnazione e si è fatto Egli stesso la Via, così che possiamo camminare sicuri, in mezzo agli incroci e alle false indicazioni del mondo, spesso bugiardo.

I santi sono fratelli e sorelle che hanno percorso fino in fondo questa strada e sono arrivati alla meta. Ci accompagnano come testimoni viventi di Cristo nostra Via, Verità e Vita. Ci incoraggiano a rimanere sul sentiero del discepolato anche quando facciamo fatica, quando cadiamo. Come luci accese da Dio, brillano davanti a noi per non farci perdere di vista la meta. “Confidate nella grazia di Dio! – ci dicono –. Lui vi ama e chiama anche voi ad essere santi” (cfr Rm 1,7).

SentendoLa parlare e sentendo parlare delle vostre realtà ringraziavo Dio, perché ci sono stati momenti in cui la venerazione dei santi sembrava dividere piuttosto che unire i credenti cattolici e ortodossi, da un lato, e quelli evangelici, dall’altro. Ma così non deve essere e, in realtà, non è mai stato nella fede del santo Popolo fedele di Dio. Nella Liturgia eucaristica noi così preghiamo rivolti al Padre celeste: «La moltitudine dei santi proclama la tua grandezza; perché nel coronamento dei loro meriti tu coroni l’opera della tua grazia» (Prefazio dei Santi I). E inoltre la Confessio Augustana, nel 21° articolo, afferma che «i santi devono essere ricordati, per rafforzare la nostra fede, quando vediamo come hanno ricevuto la grazia e come sono stati aiutati dalla fede; e per prendere esempio dalle loro buone opere».

Cari fratelli e sorelle, voi avete ricordato alcuni grandi Santi nordici: Brigida, Enrico e Olav. Questo fa pensare a ciò che scrisse il Papa San Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint: «Vorrei – cito – ricordare quell’incontro di preghiera che mi ha unito, nella stessa Basilica di San Pietro, per la celebrazione dei Vespri, con gli Arcivescovi luterani, Primati di Svezia e di Finlandia, in occasione del VI centenario della canonizzazione di Santa Brigida. […] Si tratta di un esempio, perché la consapevolezza del dovere di pregare per l’unità è diventata parte integrante della vita della Chiesa» (n. 25). Se il millenario della morte di Sant’Olav, nel 2030, potrà ispirare e approfondire la nostra preghiera per l’unità, e anche il nostro camminare insieme, questo sarà un dono per l’intero movimento ecumenico.

Carissimi, vi ringrazio, perché questo incontro con voi è un segno vivo nel contesto della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani iniziata ieri. Facciamo in modo che questo appuntamento ecumenico non si riduca a un adempimento e che non diventi autoreferenziale: che abbia sempre la linfa vitale dello Spirito Santo e che sia aperto ad accogliere i fratelli più poveri e più dimenticati, e anche coloro che si sentono abbandonati da Dio, che hanno smarrito la strada della fede e della speranza.

E ora vorrei invitarvi a recitare insieme la preghiera del Signore. Possiamo farlo ciascuno nella propria lingua. Invochiamo il nostro Padre celeste: “Padre nostro…”.

Alla Delegazione della Fondazione Arena di Verona (18 gennaio 2024)

Gio, 18/01/2024 - 09:30

Eccellenza, distinte Autorità,
cari amici, benvenuti!

Sono lieto di accogliervi in occasione delle celebrazioni per il centenario della “rinascita” dell’Arena di Verona, iniziata nel 1913 con la grande rappresentazione dell’Aida di Giuseppe Verdi e continuata fino ad oggi. Cento stagioni di attività artistica di altissimo livello, che hanno raccolto e mantenuto viva una preziosa eredità del passato, per consegnarla ancora più ricca alle generazioni future. E questo è molto bello: è una forma intelligente, creativa e concreta di gratitudine e di carità.

L’eredità di cui parliamo è multiforme. L’edificio stesso dell’Arena, prima di tutto, ha una storia di venti secoli, e si è conservato nel tempo proprio grazie al fatto di essere sempre stato un luogo vissuto. Come spesso accade, è stato adattato a vari utilizzi, protagonista di alterne vicende: valorizzato, in alcuni periodi, nella sua funzione originale di luogo di spettacolo; declassato, in altri, ad usi più umili, fino a rischiare, in alcuni momenti, di essere ridotto addirittura a cava di pietre. Lo ha però sempre riscattato l’affetto con cui i veronesi ne hanno di volta in volta tutelato la sopravvivenza, tornando a restaurarlo e a ripristinarlo tante e tante volte. E così è giunto agli inizi del ‘900 ad ospitare i natali di quella che sarebbe diventata la bellissima avventura del Festival, oggi centenaria.

Quanto lavoro in tutto questo, quanta dedizione e quanta fatica: da quella di chi ha costruito e ricostruito le strutture, a quella di autori ed artisti, a quella degli organizzatori dei vari eventi e a quella di tutti coloro, moltissimi, forse i più, che hanno lavorato, come si suol dire, “dietro le quinte”. Pensandoci, viene alla mente ciò che San Paolo dice della Chiesa, quando la paragona a un corpo che ha molte membra: ciascuna parte è complementare alle altre nella sua funzione specifica (cfr 1 Cor 12,1-27). Cento anni di arte, infatti, non può produrli una persona sola, e neanche un gruppetto di eletti: richiedono il concorso di una grande comunità, la cui opera va oltre l’esistenza stessa dei singoli e in cui chi lavora sa di costruire qualcosa non solo per sé, ma anche per chi verrà dopo. Per questo, guardandovi, vedo assieme a voi la folla ancora più grande di uomini e di donne che vi hanno preceduto e che idealmente portate qui: una folla presente sempre, anche sul palcoscenico, ad ogni spettacolo, che ci ricorda quanto è importante, nell’arte come nella vita, essere umili e generosi. Umiltà e generosità: due virtù del vero artista di cui ci parla la vostra storia!

Vi incoraggio dunque a continuare quest’opera, e a farlo con amore, non tanto per il successo personale, quanto per la gioia di donare qualcosa di bello agli altri. Donare felicità con l’arte, diffondere serenità, comunicare armonia! Ne abbiamo tutti tanto bisogno. Vi benedico di cuore. E vi raccomando, non dimenticatevi di pregare per me.

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