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Aggiornato: 5 min 34 sec fa

Ai partecipanti al Convegno Internazionale sulla formazione permanente dei sacerdoti (8 febbraio 2024)

Gio, 08/02/2024 - 08:00

“Ravviva il dono di Dio che è in te” (cfr 2 Tm 1,6).
La bellezza di essere discepoli oggi.
Una formazione unica, integrale, comunitaria e missionaria
 

Cari fratelli e sorelle!

Vi ringrazio di cuore per questo momento che posso trascorrere con voi. Grazie di essere venuti a Roma in occasione Convegno internazionale per la formazione permanente dei sacerdoti, promosso dal Dicastero per il Clero – soprattutto dal grande capo coreano! – e anche dai Dicasteri per l’Evangelizzazione e per le Chiese Orientali. Ringrazio i Prefetti dei Dicasteri coinvolti e tutti coloro che si sono prodigati per la preparazione di questo appuntamento. Per tanti di voi non è stato facile venire a Roma; ma soprattutto voglio esprimervi la mia gratitudine per quanto fate nelle vostre diocesi e nei vostri Paesi, per il servizio che portate avanti e che anche il sondaggio condotto in vista di questo Convegno ha messo in luce.

In questi giorni avete la grazia di condividere le buone pratiche, di confrontarvi sulle sfide e sui problemi e di scrutare gli orizzonti futuri della formazione sacerdotale in questo cambiamento d’epoca, guardando sempre avanti, sempre pronti a gettare nuovamente le reti sulla Parola del Signore (cfr Lc 5,4-5; Gv 21,6). Si tratta di camminare alla ricerca di strumenti e linguaggi che aiutino la formazione sacerdotale, non pensando di avere in mano tutte le risposte – io ho paura di coloro che hanno in mano tutte le risposte, ne ho paura –, ma confidando di poterle trovare strada facendo. In questi giorni, allora, ascoltatevi a vicenda, e lasciatevi ispirare dall’invito che l’apostolo Paolo rivolge a Timoteo e che dà il titolo al vostro Convegno: «Ravviva il dono di Dio che è in te» (cfr 2 Tm 1,6). Ravvivare il dono, riscoprire l’unzione, riaccendere il fuoco perché non si spenga lo zelo del ministero apostolico.

E come possiamo ravvivare il dono ricevuto? Vorrei indicarvi tre strade per il cammino che state facendo: la gioia del Vangelo, l’appartenenza al popolo, la generatività del servizio.

Primo: la gioia del Vangelo. Al centro della vita cristiana c’è il dono dell’amicizia con il Signore, che ci libera dalla tristezza dell’individualismo e dal rischio di una vita senza significato, senza amore e senza speranza. La gioia del Vangelo, la buona notizia che ci accompagna è proprio questa: siamo amati da Dio con tenerezza e misericordia. E questo annuncio gioioso siamo chiamati a farlo risuonare nel mondo, testimoniandolo con la vita, perché tutti possano scoprire la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto (cfr Evangelii gaudium, 36). Ricordiamoci di ciò che diceva San Paolo VI: essere testimoni prima che maestri (cfr Evangelii nuntiandi, 41), testimoni dell’amore di Dio, che è l’unica cosa che conta. E quando uno non è capace di essere testimone è triste, è molto triste.

Qui troviamo un caposaldo della formazione permanente, non soltanto dei preti ma di ogni cristiano, che anche la Ratio fundamentalis sottolinea: solo se siamo e rimaniamo discepoli, possiamo diventare ministri di Dio e missionari del suo Regno. Solo accogliendo e custodendo la gioia del Vangelo, possiamo portare questa gioia agli altri. Nel fare formazione permanente, dunque, non dimentichiamo che siamo sempre discepoli in cammino e che ciò costituisce, in ogni momento, la cosa più bella che ci è capitata, per grazia! E quando noi troviamo sacerdoti che non hanno quella capacità di servizio, forse egoisti, sacerdoti che hanno preso un po’ la via “imprenditoriale”, allora hanno perso questa capacità di sentirsi discepoli, si sentono padroni.

La grazia suppone sempre la natura, e per questo abbiamo bisogno di una formazione umana integrale. Infatti, l’essere discepoli del Signore non è un travestimento religioso, ma è uno stile di vita, e dunque richiede la cura della nostra umanità. Il contrario di questo è il prete “mondano”. Quando la mondanità entra nel cuore del prete si rovina tutto. Su questo aspetto vi chiedo di impiegare tutte le vostre energie e risorse: la cura della formazione umana. E anche la cura per vivere umanamente. Una volta un vecchio prete mi ha detto: “Quando un prete è incapace di giocare con i bambini, ha perso”. È interessante: è un test. C’è bisogno di sacerdoti pienamente umani, che giochino con i bambini e che accarezzino i vecchi, capaci di buone relazioni, maturi nell’affrontare le sfide del ministero, perché la consolazione del Vangelo giunga al popolo di Dio attraverso la loro umanità trasformata dallo Spirito di Gesù. Non dimentichiamo mai la forza umanizzante del Vangelo! Un sacerdote amaro, un sacerdote che ha l’amarezza nel cuore è uno “zitellone”!

Una seconda strada da percorrere: l’appartenenza al popolo di Dio. Discepoli missionari si può essere solo insieme. Possiamo vivere bene il ministero sacerdotale solo immersi nel popolo sacerdotale, dal quale anche noi proveniamo. Questa appartenenza al popolo – non sentirci mai separati dal cammino del santo popolo fedele di Dio – ci custodisce, ci sostiene nelle fatiche, ci accompagna nelle ansie pastorali e ci preserva dal rischio di staccarci dalla realtà e di sentirci onnipotenti. Stiamo attenti, perché questa è anche la radice di ogni forma di abuso.

Per restare immersi nella storia reale del popolo, c’è bisogno che la formazione sacerdotale non sia concepita come “separata”, ma possa servirsi dell’apporto del popolo di Dio: di sacerdoti e fedeli laici, di uomini e donne, di persone celibi e coppie sposate, di anziani e giovani, senza dimenticare i poveri e i sofferenti che hanno tanto da insegnare. Nella Chiesa, infatti, vi è una reciprocità e una circolarità tra gli stati di vita, le vocazioni, tra i ministeri e i carismi. E questo ci chiede la sapienza umile di imparare a camminare insieme, facendo della sinodalità uno stile della vita cristiana e della stessa vita sacerdotale. Ai sacerdoti, soprattutto oggi, è richiesto l’impegno di fare “esercizi di sinodalità”. Ricordiamolo sempre: camminare insieme. Il prete sempre insieme con il popolo a cui appartiene, ma anche insieme al vescovo e al presbiterio. Non trascuriamo mai la fraternità sacerdotale! E su questo aspetto, di essere unito al popolo di Dio, Paolo avverte Timoteo: “Ricordati di tua mamma e di tua nonna”. Ricordati delle tue radici, della tua storia, della storia della tua famiglia, della storia del tuo popolo. Il sacerdote non nasce per generazione spontanea. O è del popolo di Dio è un aristocratico che finisce nevrotico.

Infine, una terza via è quella della generatività del servizio. Servire è il distintivo dei ministri di Cristo. Ce lo ha mostrato il Maestro, in tutta la sua vita e, in particolare, durante l’Ultima Cena quando ha lavato i piedi dei discepoli. Nell’ottica del servizio, la formazione non è un’operazione estrinseca, la trasmissione di un insegnamento, ma diventa l’arte di mettere l’altro al centro, facendo emergere la sua bellezza, il bene che è che porta dentro, mettendo in luce i suoi doni e anche le sue ombre, le sue ferite e i suoi desideri. E così formare i sacerdoti significa servirli, servire la loro vita, incoraggiare il loro percorso, aiutarli nel discernimento, accompagnarli nelle difficoltà e sostenerli nelle sfide pastorali.

Il prete che viene formato così, a sua volta si mette a servizio del popolo di Dio, è vicino alla gente e, come Gesù ha fatto sulla croce, si fa carico di tutti. Guardiamo a questa cattedra, fratelli e sorelle: la Croce. Da lì, amandoci fino alla fine (cfr Gv 13,1), il Signore ha generato un popolo nuovo. E anche noi, quando ci mettiamo a servizio degli altri, quando diventiamo padri e madri per coloro che ci sono affidati, generiamo la vita di Dio. Questo è il segreto di una pastorale generativa: non una pastorale in cui siamo noi al centro, ma una pastorale che genera figlie e figli alla vita nuova, che porta l’acqua viva del Vangelo nel terreno del cuore umano e del tempo presente.

A tutti voi auguro ogni bene. Voi – questo voglio aggiungere e anche riprendere una cosa che ho detto prima – per favore, non stancatevi di essere misericordiosi. Perdonate sempre. Quando la gente viene a confessarsi, viene a chiedere il perdono e non a sentire una lezione di teologia o delle penitenze. Siate misericordiosi, per favore. Perdonare sempre, perché il perdono ha questa grazia della carezza, dell’accogliere. Il perdono sempre è generativo dentro. Questo mi raccomando: perdonate sempre. Vi auguro ogni bene per il vostro convegno; e vi lascio le tre parole-chiave: la gioia del Vangelo che è alla base della nostra vita, l’appartenenza a un popolo che ci custodisce e ci sostiene, al santo popolo fedele di Dio, la generatività del servizio che ci rende padri e pastori. Che la Madonna vi accompagni sempre. La Madonna dà una cosa a noi sacerdoti: la grazia della tenerezza. Quella tenerezza che si vede anche con le persone in difficoltà, i vecchi, gli ammalati, i bambini che sono piccolissimi… Chiedete questa grazia, e non abbiate paura di essere teneri. La tenerezza è forte. Grazie! 

Udienza Generale del 7 febbraio 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 7. <i>La tristezza</i>

Mer, 07/02/2024 - 09:00

Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

 

Catechesi. I vizi e le virtù. 7. La tristezza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel nostro itinerario di catechesi sui vizi e le virtù, oggi ci soffermiamo su un vizio piuttosto brutto, la tristezza, intesa come un abbattimento dell’animo, un’afflizione costante che impedisce all’uomo di provare gioia per la propria esistenza.

Anzitutto bisogna notare che, a proposito della tristezza, i Padri avevano elaborato un’importante distinzione. Vi è infatti una tristezza che conviene alla vita cristiana e che con la grazia di Dio si muta in gioia: questa, ovviamente, non va respinta e fa parte del cammino di conversione. Ma vi è anche una seconda figura di tristezza che si insinua nell’anima e che la prostra in uno stato di abbattimento: è questo secondo genere di tristezza che deve essere combattuto risolutamente e con tutta forza, perché essa viene dal Maligno. Questa distinzione la troviamo anche in San Paolo, che scrivendo ai Corinzi dice così: «La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte» (2 Cor 7,10).

C’è dunque una tristezza amica, che ci porta alla salvezza. Pensiamo al figlio prodigo della parabola: quando tocca il fondo della sua degenerazione prova grande amarezza, e questa lo spinge a rientrare in sé stesso e a decidere di tornare a casa di suo padre (cfr Lc 15,11-20). È una grazia gemere sui propri peccati, ricordarsi dello stato di grazia da cui siamo decaduti, piangere perché abbiamo perduto la purezza in cui Dio ci ha sognati.

Ma c’è una seconda tristezza, che invece è una malattia dell’anima. Nasce nel cuore dell’uomo quando svanisce un desiderio o una speranza. Qui possiamo fare riferimento al racconto dei discepoli di Emmaus. Quei due discepoli se ne vanno da Gerusalemme con il cuore deluso, e allo sconosciuto che a un certo punto li affianca confidano: «Noi speravamo che fosse lui – cioè Gesù – a liberare Israele» (Lc 24,21). La dinamica della tristezza è legata all’esperienza della perdita. Nel cuore dell’uomo nascono speranze che vengono a volte deluse. Può essere il desiderio di possedere una cosa che invece non si riesce ad ottenere; ma anche qualcosa di importante, come una perdita affettiva. Quando questo capita, è come se il cuore dell’uomo cadesse in un precipizio, e i sentimenti che prova sono scoraggiamento, debolezza di spirito, depressione, angoscia. Tutti attraversiamo prove che generano in noi tristezza, perché la vita ci fa concepire sogni che poi vanno in frantumi. In questa situazione, qualcuno, dopo un tempo di turbamento, si affida alla speranza; ma altri si crogiolano nella malinconia, permettendo che essa incancrenisca il cuore. Si sente piacere in questo? Vedete: la tristezza è come il piacere del non piacere; è come prendere una caramella amara, senza zucchero, cattiva, e succhiare quella caramella. La tristezza è un piacere del non piacere.

Il monaco Evagrio racconta che tutti i vizi hanno di mira un piacere, per quanto effimero esso possa essere, mentre la tristezza gode del contrario: del cullarsi in un dolore senza fine. Certi lutti protratti, dove una persona continua ad allargare il vuoto di chi non c’è più, non sono propri della vita nello Spirito. Certe amarezze rancorose, per cui una persona ha sempre in mente una rivendicazione che le fa assumere le vesti della vittima, non producono in noi una vita sana, e tanto meno cristiana. C’è qualcosa nel passato di tutti che dev’essere guarito. La tristezza, da emozione naturale può trasformarsi in uno stato d’animo malvagio.

È un demone subdolo, quello della tristezza. I padri del deserto lo descrivevano come un verme del cuore, che erode e svuota chi l’ha ospitato. Questa immagine è bella, ci fa capire. E allora che cosa devo fare quando sono triste? Fermarti e vedere: questa è una tristezza buona? È una tristezza non buona? E reagire secondo la natura della tristezza. Non dimenticatevi che la tristezza può essere una cosa molto brutta che ci porta al pessimismo, ci porta a un egoismo che difficilmente guarisce.

Fratelli e sorelle, dobbiamo stare attenti a questa tristezza e pensare che Gesù ci porta la gioia della risurrezione. Per quanto la vita possa essere piena di contraddizioni, di desideri sconfitti, di sogni irrealizzati, di amicizie perdute, grazie alla risurrezione di Gesù possiamo credere che tutto sarà salvato. Gesù non è risorto solo per sé stesso, ma anche per noi, per riscattare tutte le felicità che nella nostra vita sono rimaste incompiute. La fede scaccia la paura, e la risurrezione di Cristo rimuove la tristezza come la pietra dal sepolcro. Ogni giorno del cristiano è un esercizio di risurrezione. Georges Bernanos, nel suo celebre romanzo Diario di un curato di campagna, così fa dire al parroco di Torcy: «La Chiesa dispone della gioia, di tutta quella gioia che è riservata a questo triste mondo. Ciò che avete fatto contro di lei, lo avete fatto contro la gioia». E un altro scrittore francese, León Bloy, ci ha lasciato quella stupenda frase: «Non c’è che una tristezza, […] quella di non essere santi». Che lo Spirito di Gesù risorto ci aiuti a vincere la tristezza con la santità.

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Saluti

Je salue cordialement les pèlerins de langue française en particulier les collégiens et lycéens venus de France. Frères et sœurs, que l’Esprit de Jésus aide toutes les personnes plongées dans une solitude profonde et dans la nuit du désespoir à vaincre la tristesse par la joie de la résurrection. Que Dieu vous bénisse !

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese. Fratelli e sorelle, lo Spirito di Gesù aiuti tutte le persone immerse in una profonda solitudine e nella notte della disperazione a vincere la tristezza con la gioia della risurrezione. Dio vi benedica!]

I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from England, Denmark, Malta and the United States of America. Upon all of you, and upon your families, I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ. God bless you!

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Danimarca, Malta e Stati Uniti d’America. Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo. Dio vi benedica!]

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, nehmen wir im Kampf gegen die Traurigkeit vertrauensvoll Zuflucht zum Heiligen Geist, dem höchsten Tröster. Er befreit uns von der Einsamkeit, indem er in unsere Herzen die Liebe Gottes eingießt, welche uns befähigt, auch unsererseits die Trauernden und Bedürftigen zu trösten.

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, nella lotta contro la tristezza ricorriamo con fiducia allo Spirito Santo che è il consolatore perfetto. Egli ci libera dalla solitudine infondendo nei nostri cuori l’amore di Dio che ci rende capaci di consolare a nostra volta gli afflitti e i bisognosi.]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española. El próximo domingo celebramos la Jornada Mundial del Enfermo. Pidamos a María, Salud de los enfermos, por todos los que sufren, para que sepan poner su confianza en Dios, experimentando la alegría de saberse amados por Él. Que Dios los bendiga y la Virgen Santa los cuide. Muchas gracias.

Saúdo cordialmente os grupos vindos do Brasil e todos os peregrinos de língua portuguesa. Desejo que cada dia da vossa vida seja um exercício de ressurreição, iluminando tudo e todos com a alegria que Cristo Ressuscitado nos traz. Deus vos abençoe!

[Saluto cordialmente i gruppi provenienti dal Brasile e tutti i pellegrini di lingua portoghese. Auguro che ogni giorno della vostra vita sia un esercizio di risurrezione, illuminando tutto e tutti con la gioia che Cristo Risorto ci porta. Dio vi benedica!]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العربِيَّة. مَنْ يؤمِنُ باللهِ لا يَسمَحُ لحُزنِهِ بأنْ يَخنُقَهُ، أيًّا كان سبَبُهُ. بل يتغلَّبُ عليه بقوَّةِ الرُّوحِ القدس، ويُحَوِّلُه إلى حياةٍ جديدة. بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِنْ كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Chi crede in Dio non si lascia soffocare dal suo pianto, qualunque ne sia la ragione. Ma, lo vince con la forza dello Spirito Santo e lo trasforma in una vita nuova. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga ‎sempre da ogni male‎!]

Pozdrawiam serdecznie Polaków. Każdy z Was nosi w swoim sercu pragnienie szczęścia, poczucia bezpieczeństwa i własnej wartości. Niech wierność Bogu i Jego przykazaniom oraz pielęgnowanie w sobie czystego serca, otwartego na Boga i drugiego człowieka, wzmacniają nadzieję i męstwo w życiu osobistym, rodzinnym i społecznym. Z serca Wam błogosławię.

[Saluto cordialmente i polacchi. Ognuno di voi porta nel cuore il desiderio di felicità, senso di sicurezza e di stima di sé. La fedeltà a Dio e ai suoi comandamenti e la cura di un cuore puro, aperto a Dio e agli altri, rafforzino la speranza e il coraggio d'animo nella vita personale, familiare e sociale. Vi benedico di cuore.]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Pie Discepole di Divin Maestro, che celebrano il Centenario di fondazione: possa questa ricorrenza essere uno stimolo per rinsaldare gli ideali religiosi e per esprimere in modo sempre più generoso la dedizione a Dio e ai fratelli. Saluto i sacerdoti, accompagnati dall’Arcivescovo Giovanni Tani, che ricordano il 25° di Ordinazione e auspico che il giubileo sacerdotale sia per ciascuno fonte di rinnovata dedizione a Cristo e alla Chiesa.

Accolgo con affetto i Seminaristi dei Padri di Schoenstatt, i fedeli di Casal di Principe, la Delegazione della Fiaccola benedettina e le Associazioni Spe Salvi e Insuperabile: a tutti auguro di saper crescere e operare, con l’aiuto del Signore, testimoniando la fraternità e la solidarietà.

E non dimentichiamo le guerre, non dimentichiamo la martoriata Ucraina, la Palestina, Israele, i Rohingya, tante, tante guerre che sono dappertutto. Preghiamo per la pace. La guerra sempre è una sconfitta, sempre. Preghiamo per la pace. Ci vuole la pace.

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. La Vergine di Lourdes, che festeggeremo domenica prossima, vi accompagni con tenerezza materna nel vostro cammino. A tutti la mia Benedizione!

Messaggio del Santo Padre ai partecipanti al IV Congresso Internazionale della Piattaforma Universitaria di Ricerca sull'Islam (PLURIEL) [Abu Dhabi, 4-7 febbraio 2024] (4 febbraio 2024)

Dom, 04/02/2024 - 15:00

Cari fratelli e sorelle!

Porgo i miei cordiali saluti a voi che partecipate ad Abu Dhabi a questo Congresso internazionale di pluriel, la Piattaforma Universitaria di Ricerca sull’Islam, in occasione dei cinque anni dal Documento sulla Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune, che ho co-firmato con il mio amico e fratello, il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb. In quella occasione abbiamo chiesto che «questo Documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione, al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace e difendano ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi». Mi congratulo dunque vivamente con gli organizzatori di questo incontro accademico per il luogo e il tema che hanno scelto, «Impatto e prospettive del Documento», in un momento in cui la fratellanza e il vivere insieme sono rimessi in discussione dalle ingiustizie e dalle guerre che — lo ricordo — sono sempre sconfitte dell’umanità. Le radici di questi mali sono tre: la non conoscenza dell’altro, l’assenza di ascolto e la mancanza di flessibilità intellettuale. Tre mancanze dello spirito umano che distruggono la fratellanza e che è opportuno identificare bene per ritrovare la saggezza e la pace.

La non conoscenza dell’altro prima di tutto. Poiché i problemi di oggi e di domani resteranno insoluti se non impareremo a conoscerci, a stimarci e se resteremo isolati. Conoscere l’altro, costruire una fiducia reciproca, cambiare l’immagine negativa che possiamo avere di questo «altro», che è mio fratello in umanità, nelle pubblicazioni, nei discorsi e nell’insegnamento, è il modo per iniziare processi di pace accettabili per tutti. La pace senza una educazione basata sul rispetto e sulla conoscenza dell’altro, di fatto, non ha né valore né futuro. Se non vogliamo costruire una civiltà dell’anti-fratello, dove «l’altro diverso» è banalmente percepito come un nemico, se vogliamo al contrario costruire quel mondo tanto desiderato dove il dialogo è assunto come cammino, la collaborazione comune come condotta ordinaria, la conoscenza reciproca come metodo e criterio (cfr. Documento), allora la via da seguire oggi è quella dell’educazione al dialogo e all’incontro. Come ho detto nel mio ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, dedicato all’intelligenza artificiale, «la pace, infatti, è il frutto di relazioni che riconoscono e accolgono l’altro nella sua inalienabile dignità» (Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace 2024, 8 dicembre 2023). L’intelligenza umana, da parte sua, è fondamentalmente razionale: si può sviluppare solo se resta curiosa e aperta a tutti i campi del reale, e se sa comunicare liberamente il frutto delle sue scoperte

Perciò, è necessario trovare il tempo per ascoltare, ascoltare mio fratello diverso, che non ho scelto, per poter vivere con lui sulla stessa terra. L’assenza di ascolto è la seconda trappola che nuoce alla fratellanza. Al contrario: ascoltare prima di parlare. «Sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira. Perché l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio», dice san Giacomo (Gc 1, 19-20). Quanti mali si potrebbero evitare se ci fosse più ascolto, silenzio e al contempo parole vere, nelle famiglie, nelle comunità politiche o religiose, all’interno stesso delle università e tra i popoli e le culture! Il fatto di creare spazi di accoglienza dell’opinione diversa non è una perdita di tempo, ma un guadagno in umanità. Ricordiamoci che «senza il rapporto e il confronto con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di sé stessi e della propria terra, poiché le altre culture non sono nemici da cui bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile della vita umana» (Fratelli tutti, n. 147). Per dibattere occorre imparare ad ascoltare, ossia fare silenzio e rallentare, l’opposto della direzione attuale del nostro mondo postmoderno sempre agitato, pieno di immagini e di rumori. Dibattere sapendo però ascoltare e senza cedere all’emotività, senza temere neppure i «malintesi», che saranno sempre presenti e che fanno parte del gioco dell’incontro: ecco che cosa permetterà di giungere a una visione comune pacifica per costruire la fratellanza.

Ma dibattere presuppone un’educazione alla flessibilità intellettuale . La formazione e la ricerca devono mirare a rendere gli uomini e le donne dei nostri popoli non rigidi, ma duttili, vivi, aperti all’alterità, fraterni. Come ho detto durante la Conferenza internazionale per la Pace organizzata ad Al-Azhar, «la sapienza ricerca l’altro, superando la tentazione di irrigidirsi e di chiudersi; aperta e in movimento, umile e indagatrice al tempo stesso, essa sa valorizzare il passato e metterlo in dialogo con il presente, senza rinunciare a un’adeguata ermeneutica» (Discorso ai partecipanti alla Conferenza internazionale per la Pace, 28 aprile 2017). Cari fratelli e sorelle, facciamo in modo che il nostro sogno di fratellanza nella pace non si fermi alle parole! La parola «dialogo», in effetti, è di una ricchezza immensa e non può limitarsi a discutere attorno a un tavolo. «Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”» (Fratelli tutti, n. 198). Non abbiate paura di uscire dalle vostre discipline, restate curiosi, coltivate la flessibilità, ascoltate il mondo, non abbiate timore di questo mondo, ascoltate il fratello che non avete scelto, ma che Dio ha messo accanto a voi per insegnarvi ad amare. “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4, 20).

Grazie per ciò che già fate, come ricercatori, studenti, voi uomini e donne curiosi che desiderate capire e cambiare il mondo. Vi incoraggio nel lavoro che intraprenderete durante questo Congresso e invoco la benedizione di Dio su voi tutti e sulle vostre famiglie.

Dal Vaticano, 4 febbraio 2024

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 29, lunedì 5 febbraio 2023. p. 11.

Angelus, 4 febbraio 2024

Dom, 04/02/2024 - 12:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia ci mostra Gesù in movimento: Egli, infatti, ha appena finito di predicare e, uscito dalla sinagoga, si reca nella casa di Simon Pietro, dove guarisce la suocera; poi, verso sera, esce di nuovo verso la porta della città, dove incontra tanti ammalati e indemoniati e li risana; la mattina dopo, si alza presto ed esce per ritirarsi a pregare; e infine si rimette in cammino attraverso la Galilea (cfr Mc 1,29-39). Gesù in movimento.

Soffermiamoci su questo continuo movimento di Gesù, che ci dice una cosa importante su Dio e, al contempo, ci interpella con alcune domande sulla nostra fede.

Gesù che va incontro all’umanità ferita ci manifesta il volto del Padre. Può darsi che dentro di noi ci sia ancora l’idea di un Dio distante, freddo, indifferente alla nostra sorte. Il Vangelo, invece, ci fa vedere che Gesù, dopo aver insegnato nella sinagoga, esce fuori, perché la Parola che ha predicato possa raggiungere, toccare e guarire le persone. Così facendo ci rivela che Dio non è un padrone distaccato che ci parla dall’alto; al contrario, è un Padre pieno d’amore che si fa vicino, che visita le nostre case, che vuole salvare e liberare, guarire da ogni male del corpo e dello spirito. Dio sempre è vicino a noi. L’atteggiamento di Dio si può dire in tre parole: vicinanza, compassione e tenerezza. Dio che si fa vicino per accompagnarci, tenero, e per perdonarci. Non dimenticate questo: vicinanza, compassione e tenerezza. Questo è l’atteggiamento di Dio.

Questo incessante camminare di Gesù ci interpella. Possiamo chiederci: abbiamo scoperto il volto di Dio come Padre della misericordia oppure crediamo e annunciamo un Dio freddo, un Dio distante? La fede ci mette l’inquietudine del cammino oppure per noi è una consolazione intimista, che ci lascia tranquilli? Preghiamo solo per sentirci in pace oppure la Parola che ascoltiamo e predichiamo fa uscire anche noi, come Gesù, incontro agli altri, per diffondere la consolazione di Dio? Queste domande, ci farà bene farle a noi stessi.

Guardiamo, allora, al cammino di Gesù e ricordiamoci che il nostro primo lavoro spirituale è questo: abbandonare il Dio che pensiamo di conoscere e convertirci ogni giorno al Dio che Gesù ci presenta nel Vangelo, che è il Padre dell’amore e il Padre della compassione. Il Padre vicino, compassionevole e tenero. E quando scopriamo il vero volto del Padre, la nostra fede matura: non restiamo più “cristiani da sacrestia”, o “da salotto”, ma ci sentiamo chiamati a diventare portatori della speranza e della guarigione di Dio.

Maria Santissima, Donna in cammino, ci aiuti ad annunciare e testimoniare il Signore che è vicino, compassionevole e tenero.

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DOPO ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Il prossimo 10 febbraio, in Asia orientale e in diverse parti del mondo, milioni di famiglie celebreranno il capodanno lunare. Giunga loro il mio cordiale saluto, con l’augurio che questa festa sia occasione per vivere relazioni di affetto e gesti di attenzione, che contribuiscano a creare una società solidale e fraterna, dove ogni persona sia riconosciuta e accolta nella sua inalienabile dignità. Mentre invoco su tutti la benedizione del Signore, invito a pregare per la pace, alla quale il mondo tanto anela e che, oggi più che mai, è messa a rischio in molti luoghi. Essa non è una responsabilità di pochi, ma dell’intera famiglia umana: cooperiamo tutti a costruirla con gesti di compassione e coraggio!

E continuiamo a pregare per le popolazioni che soffrono per la guerra, specialmente in Ucraina, in Palestina e in Israele.

Oggi, in Italia, si celebra la Giornata per la Vita, sul tema “La forza della vita ci sorprende”. Mi unisco ai Vescovi italiani nell’auspicare il superamento di visioni ideologiche per riscoprire che ogni vita umana, anche quella più segnata da limiti, ha un valore immenso ed è capace di donare qualcosa agli altri.

Saluto i giovani di tanti Paesi venuti per la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta, che si celebrerà l’8 febbraio prossimo, memoria di Santa Giuseppina Bakhita, la suora sudanese che da ragazza era stata schiava. Anche oggi tanti fratelli e sorelle vengono ingannati con false promesse e poi sottoposti a sfruttamenti e abusi. Uniamoci tutti per contrastare il drammatico fenomeno globale della tratta di persone umane.

Preghiamo anche per i morti e feriti dei devastanti incendi che hanno colpito il centro del Cile.

E saluto tutti voi che siete venuti da Roma, dall’Italia e da tante parti del mondo. Saluto in particolare i consacrati e le consacrate di oltre 60 Paesi che partecipano all’incontro “Pellegrini di speranza sulla via della pace”, promosso dal Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Saluto gli studenti di Badajoz (Spagna) e quelli della Scuola Salesiana “Sévigné” di Marsiglia; come pure i fedeli polacchi di Varsavia e di altre città; e i gruppi di San Benedetto del Tronto, Ostra e Cingoli. E vedo lì bandiere giapponesi, saluto i giapponesi! E vedo bandiere polacche, saluto i polacchi, e tutti voi, e i ragazzi dell’Immacolata.

Auguro a tutti una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

 

Messaggio del Santo Padre Francesco al Segretario Generale del Premio Zayed per la Fratellanza Umana (4 febbraio 2024)

Dom, 04/02/2024 - 08:00

Al Signor Mohammed Abdelsalam
Segretario Generale
del Premio Zayed
per la Fratellanza Umana

In occasione della Giornata Mondiale della Fratellanza Umana 2024, in cui ricorre anche il quinto anniversario della firma del Documento sulla Fratellanza Umana, invio cordiali saluti e sentimenti di calorosa amicizia a tutti i presenti al conferimento del Premio Zayed di quest’anno.

È incoraggiante constatare che il cammino di dialogo, amicizia e stima reciproca iniziato cinque anni fa ad Abu Dhabi continua a recare frutto. In modo particolare desidero ribadire la mia gratitudine al dottor Ahmad Al-Tayyeb, Grande Imam di Al-Azhar, e a Sua Altezza lo Sceicco Mohamed bin Zayed Al Nahyan, Presidente degli Emirati Arabi Uniti, per il loro vitale sostegno a iniziative volte a promuovere i valori della fratellanza e dell’amicizia sociale, fondato sulla verità che tutti gli esseri umani non sono solo creati uguali, ma sono anche intrinsecamente connessi come fratelli e sorelle, figli del nostro unico Dio in cielo.

In modo speciale, mi congratulo con i tre co-vincitori del Premio di quest’anno: le organizzazioni Nahdlatul Ulama e Muhammadiyah dell’Indonesia, il dottor Magdi Yacoub dell’Egitto e suor Nelly León del Cile. Il fatto che questi tre premiati siano stati scelti tra un gran numero di candidati è un ulteriore segno che i valori celebrati e promossi in questa Giornata risuonano nella nostra famiglia umana.

Al tempo stesso, però, non possiamo non riconoscere gli effetti della mancanza di solidarietà fraterna, sentiti in maniera fin troppo intensa da uomini e donne ovunque e dal nostro mondo naturale. L’impatto negativo della distruzione ambientale e del degrado sociale continua a causare immensa sofferenza a un gran numero di fratelli e sorelle in tutto il mondo. Quanto è opportuno, quindi, attirare l’attenzione sui principi che possono guidare l’umanità attraverso le ombre oscure dell’ingiustizia, dell’odio e della guerra verso la luminosità di una comunità mondiale caratterizzata da quei valori che vediamo espressi nei diversi sforzi dei premiati di quest’anno.  Tra questi vi sono l’amore tollerante per coloro che sono diversi, la cura autentica per i poveri e i malati, specialmente i bambini, e il desiderio di aiutare la riabilitazione dei detenuti e il loro reinserimento nella società. Tutti i vincitori, nei loro modi peculiari, gettano una luce importante sul cammino verso una solidarietà sociale e un amore fraterno più grandi.

Tuttavia, nessuno sforzo individuale o umano può aiutare il progresso in questo cammino. Di fatto, lo stesso Premio Zayed è un promemoria che «senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. [...] Perché “la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità”» (Fratelli tutti, n. 272). È quindi mia preghiera che tutti coloro che partecipano a questa Giornata Internazionale possano essere incoraggiati non soltanto dall’esempio delle buone opere dei premiati, ma anche dalle intuizioni e dalle credenze religiose che  hanno ispirato in loro una tale generosità di cuore.

Infine, rivolgendomi a quanti sono collegati al Premio Zayed, porgo i miei saluti e oranti buoni auspici a tutti e a ognuno dei nostri fratelli e sorelle, specialmente a coloro che soffrono in qualche modo. Possano essi conoscere la vicinanza e la preoccupazione di persone di fede in tutto il mondo. Con questi sentimenti e con grande affetto invoco volentieri su tutti un’abbondanza di benedizioni divine.

Dal Vaticano, 4 febbraio 2024

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 29, lunedì 5 febbraio 2023. p. 11.

A Docenti e Alunni del Collegio Rotondi, di Gorla Minore (Varese) (3 febbraio 2024)

Sab, 03/02/2024 - 09:45

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Do il benvenuto a tutti voi, ragazzi, genitori e docenti del Collegio Rotondi di Gorla. Saluto in particolare il vostro Rettore, don Andrea Cattaneo. State celebrando il 425° anniversario di fondazione della vostra scuola, nata nel lontano 1599: più di quattro secoli di storia, e mi sembra che li portate bene!

È un piacere vedervi qui. Soprattutto voi, ragazzi, che con i vostri volti giovani e pieni di vita, con i sogni, i progetti e i desideri che portate nel cuore date senso e valore a una eredità così antica. Con la vostra presenza, testimoniate come il Collegio Rotondi, fedele alla sua tradizione educativa, è cresciuto nel tempo, cambiando e adattandosi tante volte di fronte alle necessità di diversi momenti storici: dalle origini, con la donazione del Canonico Giovanni Terzaghi, alle trasformazioni avvenute sotto i governi austriaco e sabaudo, quest’ultima ad opera del Rettore Rotondi – da cui prendete il nome attuale –, al travaglio delle due guerre mondiali, alle sfide del dopo-guerra, fino ad essere oggi la più antica scuola cattolica “paritaria” d’Italia. E tutto questo contiene un messaggio importante, su cui vi invito a riflettere: è necessario saper cambiare per rimanere fedeli alla propria identità e missione.

Vi incoraggio a impegnarvi intensamente nelle vostre attività scolastiche, ma sempre con una mente aperta alla novità. In particolare voi, ragazzi, ricercate in tutto la verità, senza lasciarvi condizionare dalle mode del momento o dal pensare comune, dai like o dal consenso dei followers: non sono queste le cose più importanti, anzi dipendere troppo da esse ci può togliere la libertà. Al tempo stesso però, non temete, quando necessario, di cambiare e di accettare opinioni e modi di pensare diversi dal vostro in tutto quello che non è essenziale: siate veri amanti della verità, e per questo sempre disponibili all’ascolto e al confronto.

Gesù ci ha insegnato che la verità ci rende liberi (cfr Gv 8,32), e lo diceva a persone che facevano fatica ad accogliere il suo modo nuovo di leggere le Scritture, perché in realtà non le conoscevano abbastanza (cfr Mc 12,24-27) e avevano paura di mutare i propri schemi. Vedete? L’ignoranza genera paura e la paura genera intolleranza. Voi non fate così. Studiate facendo “squadra”, insieme, e sempre in allegria! La conoscenza, infatti, cresce nella condivisione con gli altri. Si studia per crescere, e crescere vuol dire maturare insieme, dialogare: dialogare con Dio, con gli insegnanti e gli altri educatori, con i genitori; dialogare tra di voi e anche con chi la pensa in modo diverso, per imparare sempre cose nuove e permettere a tutti di dare il meglio di sé. Del resto, questo dice il motto della vostra scuola: «Erudire et edocere», cioè fornire a ciascuno gli strumenti necessari a leggere la realtà e ad esprimersi con libertà creativa.

Carissimi, grazie di essere venuti, e grazie per l’impegno che mettete nel portare avanti la vostra comunità educativa. Continuate così, custodendo e attualizzando l’eredità che avete ricevuto. Vi benedico tutti cuore. E vi raccomando, non dimenticatevi di pregare per me! Grazie!

Alla Comunità del Seminario di Madrid (3 febbraio 2024)

Sab, 03/02/2024 - 08:45

Caro fratello, cari seminaristi,

Ci troviamo qui grazie a una felice coincidenza: Sua Eminenza don José prenderà possesso della chiesa di Santiago y Montserrat, che unisce nei suoi santi titolari la fede apostolica e l’amore per Maria che caratterizza tutta la Spagna.

E don José viene inoltre accompagnato dal suo tesoro più prezioso, che siete voi, il suo seminario. Molti santi vescovi della Spagna si sono confrontati con la difficile realtà in cui si trovavano le loro chiese, e hanno pensato al seminario come al luogo in cui il loro sogno pastorale poteva gettare solide radici ed espandersi. In realtà, se vogliamo fare Chiesa, Corpo di Cristo, è facile perché, come disse Dio a Mosè, dobbiamo solo fissare il modello che abbiamo visto sul monte (cfr. Es 26, 30), il Cristo Trasfigurato presente nell’Eucaristia.

Mi viene in mente un detto di uno di questi santi vescovi, che probabilmente conoscete, lui voleva «un seminario in cui l’Eucaristia fosse: nell’ordine pedagogico, lo stimolo più efficace; in quello scientifico, il primo maestro e la prima materia; in quello disciplinare l’ispettore più vigile; in quello ascetico il modello più vivo; in quello economico la grande provvidenza; e in quello architettonico la pietra angolare» (San Manuel González, Un sueño pastoral).

Ripassiamo questi punti per porre Dio al centro, ossia, per lasciare che sia Lui il fondamento, il progetto e l’architetto, pietra angolare. Ciò si ottiene solo con l’adorazione. Gesù — ci dice il nostro santo — ci farà da pedagogo, paziente, severo, dolce e fermo a seconda di ciò di cui abbiamo bisogno nel nostro discernimento, perché ci conosce meglio di noi stessi, e ci aspetta, ci incoraggia e ci sostiene in tutto il nostro cammino. È il nostro stimolo più grande, perché noi abbiamo consacrato la nostra vita a seguirlo.

Mi sembra fondamentale che nel campo scientifico san Manuel unisca l’essere il maestro con l’essere la materia. Dio vuole dare al suo Popolo pastori secondo il suo cuore (cfr. Ger 13, 15), da Gesù non impariamo cose, lo accogliamo, ci afferriamo a Lui, per poterlo portare agli altri. E la grande lezione che il Signore ci dà è l’umanità, l’essersi fatto carne, terra, uomo, humus per noi, per amore. E in questa materia non c’è altro esempio che Lui stesso; di altre virtù e circostanze Gesù presenterà parabole, confronti, fichi, semi e tempeste, ma la grande lezione della sua vita possiamo impararla solo da chi è «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29).

Per la disciplina, confrontarci ogni mattina con l’Eucaristia — l’ispettore più vigile — ci fa riflettere sulla futilità delle nostre idee mondane, dei nostri desideri di ascendere, di apparire, di risaltare. Colui che è immenso si fa dono totale di sé e nelle mie mani, prima di comunicare, m’interpella: ti sei riconciliato con tuo fratello? Ti sei vestito con l’abito da festa? Sei pronto a entrare nel mio banchetto eterno?

Finora abbiamo visto discernimento, scienza e vigilanza; sicuramente sono aspetti chiave nel vostro seminario, ma non servirebbero a nulla senza l’ascesi; copiare un modello presuppone uno sforzo, fare un’opera d’arte richiede ispirazione, ma anche lavoro, Gesù non ha eluso tutto ciò. È necessario entrare nel deserto, affinché Lui parli al nostro cuore, se questo sarà colmo di mondanità, di cose, per quanto si possano chiamare “religiose”, Dio non troverà posto, né noi lo udiremo quando busserà alla nostra porta. Perciò silenzio, preghiera, digiuno, penitenza, ascesi sono necessari per liberarci da ciò che ci schiavizza ed essere completamente di Dio. E questo non solo all’interno, ma anche all’esterno, nel lavoro, nei progetti, abbandonandoci a Gesù; il Signore sarà la grande provvidenza, lasciamo che sia Lui a proporre e a realizzare, mettiamoci solo ai suoi ordini con docilità di spirito.

Cari fratelli, abbiate fiducia in colui che vi ha chiamati per questo bel compito, e prostratevi in adorazione per poter costruire con docilità il tempio di Dio nelle vostre persone e nelle vostre comunità. E quando comunicate, e un giorno quando celebrerete, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

 

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 28, sabato 3 febbraio 2024.

 

XXVIII Giornata Mondiale della Vita Consacrata - Festa della Presentazione del Signore (2 febbraio 2024)

Ven, 02/02/2024 - 17:30

Mentre il popolo attendeva la salvezza del Signore, i profeti ne annunciavano la venuta, come afferma il profeta Malachia: «Entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate. E l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire» (3,1). Simeone e Anna sono immagine e figura di questa attesa. Vedono entrare il Signore nel suo tempio e, illuminati dallo Spirito Santo, lo riconoscono nel Bambino che Maria porta in braccio. Lo avevano atteso per tutta la vita: Simeone, «uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele» (Lc 2,25); Anna, che «non si allontanava mai dal tempio» (Lc 2,37).

Ci fa bene guardare a questi due anziani pazienti nell’attesa, vigilanti nello spirito e perseveranti nella preghiera. Il loro cuore è rimasto sveglio, come una fiaccola sempre accesa. Sono avanti in età, ma hanno la giovinezza del cuore; non si lasciano consumare dai giorni, perché i loro occhi rimangono rivolti a Dio in attesa (cfr Sal 145,15). Rivolti a Dio in attesa, sempre in attesa. Lungo il cammino della vita hanno sperimentato fatiche e delusioni, ma non si sono arresi al disfattismo: non hanno “mandato in pensione” la speranza. E così, contemplando il Bambino, riconoscono che il tempo è compiuto, la profezia si è realizzata, Colui che cercavano e sospiravano, il Messia delle genti, è arrivato. Tenendo desta l’attesa del Signore, diventano capaci di accoglierlo nella novità della sua venuta.

Fratelli e sorelle, l’attesa di Dio è importante anche per noi, per il nostro cammino di fede. Ogni giorno il Signore ci visita, ci parla, si svela in modo inaspettato e, alla fine della vita e dei tempi, verrà. Perciò Egli stesso ci esorta a restare svegli, a vigilare, a perseverare nell’attesa. La cosa peggiore che può capitarci, infatti, è scivolare nel “sonno dello spirito”: addormentare il cuore, anestetizzare l’anima, archiviare la speranza negli angoli oscuri delle delusioni e delle rassegnazioni.

Penso a voi, sorelle e fratelli consacrati, e al dono che siete; penso a ciascuno di noi cristiani di oggi: siamo ancora capaci di vivere l’attesa? Non siamo a volte troppo presi da noi stessi, dalle cose e dai ritmi intensi di ogni giornata, al punto da dimenticarci di Dio che sempre viene? Non siamo forse troppo rapiti dalle nostre opere di bene, rischiando di trasformare anche la vita religiosa e cristiana nelle “tante cose da fare” e tralasciando la ricerca quotidiana del Signore? Non rischiamo a volte di programmare la vita personale e la vita comunitaria sul calcolo delle possibilità di successo, invece che coltivare con gioia e umiltà il piccolo seme che ci è affidato, nella pazienza di chi semina senza pretendere nulla e di chi sa aspettare i tempi e le sorprese di Dio? A volte – dobbiamo riconoscerlo – abbiamo smarrito questa capacità di attendere. Ciò dipende da diversi ostacoli, e tra questi vorrei sottolinearne due.

Il primo ostacolo che ci fa perdere la capacità di attendere è la trascuratezza della vita interiore. È quello che succede quando la stanchezza prevale sullo stupore, quando l’abitudine prende il posto dell’entusiasmo, quando perdiamo la perseveranza nel cammino spirituale, quando le esperienze negative, i conflitti o i frutti che sembrano tardare ci trasformano in persone amare e amareggiate. Non fa bene masticare l’amarezza, perché in una famiglia religiosa – come in ogni comunità e famiglia – le persone amareggiate e con la “faccia scura” appesantiscono l’aria; quelle persone che sembrano avere aceto nel cuore. Occorre allora recuperare la grazia smarrita: andare indietro e attraverso un’intensa vita interiore, ritornare allo spirito di umiltà gioiosa, di gratitudine silenziosa. E questo si alimenta con l’adorazione, con il lavoro di ginocchia e di cuore, con la preghiera concreta che lotta e intercede, capace di risvegliare il desiderio di Dio, l’amore di un tempo, lo stupore del primo giorno, il gusto dell’attesa.

Il secondo ostacolo è l’adeguamento allo stile del mondo, che finisce per prendere il posto del Vangelo. E il nostro è un mondo che spesso corre a gran velocità, che esalta il “tutto e subito”, che si consuma nell’attivismo e cerca di esorcizzare le paure e le angosce della vita nei templi pagani del consumismo o nello svago a tutti i costi. In un contesto del genere, dove il silenzio è bandito e smarrito, attendere non è facile, perché richiede un atteggiamento di sana passività, il coraggio di rallentare il passo, di non lasciarci travolgere dalle attività, di fare spazio dentro di noi all’azione di Dio, come insegna la mistica cristiana. Facciamo attenzione, allora, perché lo spirito del mondo non entri nelle nostre comunità religiose, nella vita ecclesiale e nel cammino di ciascuno di noi, altrimenti non porteremo frutto. La vita cristiana e la missione apostolica hanno bisogno che l’attesa, maturata nella preghiera e nella fedeltà quotidiana, ci liberi dal mito dell’efficienza, dall’ossessione del rendimento e, soprattutto, dalla pretesa di rinchiudere Dio nelle nostre categorie, perché Egli viene sempre in modo imprevedibile, viene sempre in tempi che non sono nostri e in modi che non sono quelli che ci aspettiamo.

Come afferma la mistica e filosofa francese Simone Weil, noi siamo la sposa che attende nella notte l’arrivo dello sposo, e «la parte della futura sposa è l’attesa […]. Desiderare Dio e rinunciare a tutto il resto: in ciò soltanto consiste la salvezza» (S. Weil, Attesa di Dio, Milano 1991, 152). Sorelle, fratelli, coltiviamo nella preghiera l’attesa del Signore e impariamo la buona “passività dello Spirito”: così saremo capaci di aprirci alla novità di Dio.

Come Simeone, prendiamo in braccio anche noi il Bambino, il Dio della novità e delle sorprese. Accogliendo il Signore, il passato si apre al futuro, il vecchio che è in noi si apre al nuovo che Lui suscita. Questo non è semplice – lo sappiamo – perché, nella vita religiosa come in quella di ogni cristiano, è difficile opporsi alla “forza del vecchio”: «non è facile infatti che il vecchio che è in noi accolga il bambino, il nuovo – accogliere il nuovo, nella nostra vecchiaia accogliere il nuovo –. […] La novità di Dio si presenta come un bambino e noi, con tutte le nostre abitudini, paure, timori, invidie – pensiamo alle invidie! –, preoccupazioni, siamo di fronte a questo bambino. Lo abbracceremo, lo accoglieremo, gli faremo spazio? Questa novità entrerà davvero nella nostra vita o piuttosto tenteremo di mettere insieme vecchio e nuovo, cercando di lasciarci disturbare il meno possibile dalla presenza della novità di Dio?» (C.M. Martini, Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera, Milano 2009, 32-33).

Fratelli e sorelle, queste domande sono per noi, per ognuno di noi, sono per le nostre comunità, sono per la Chiesa. Lasciamoci inquietare, lasciamoci muovere dallo Spirito, come Simeone e Anna. Se come loro vivremo l’attesa nella custodia della vita interiore e nella coerenza con lo stile del Vangelo, se come loro vivremo così l’attesa, abbracceremo Gesù, che è luce e speranza della vita.

Santa Messa in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Vita Consacrata (2 febbraio 2024)

Ven, 02/02/2024 - 17:30

Mentre il popolo attendeva la salvezza del Signore, i profeti ne annunciavano la venuta, come afferma il profeta Malachia: «Entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate. E l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire» (3,1). Simeone e Anna sono immagine e figura di questa attesa. Vedono entrare il Signore nel suo tempio e, illuminati dallo Spirito Santo, lo riconoscono nel Bambino che Maria porta in braccio. Lo avevano atteso per tutta la vita: Simeone, «uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele» (Lc 2,25); Anna, che «non si allontanava mai dal tempio» (Lc 2,37).

Ci fa bene guardare a questi due anziani pazienti nell’attesa, vigilanti nello spirito e perseveranti nella preghiera. Il loro cuore è rimasto sveglio, come una fiaccola sempre accesa. Sono avanti in età, ma hanno la giovinezza del cuore; non si lasciano consumare dai giorni, perché i loro occhi rimangono rivolti a Dio in attesa (cfr Sal 145,15). Rivolti a Dio in attesa, sempre in attesa. Lungo il cammino della vita hanno sperimentato fatiche e delusioni, ma non si sono arresi al disfattismo: non hanno “mandato in pensione” la speranza. E così, contemplando il Bambino, riconoscono che il tempo è compiuto, la profezia si è realizzata, Colui che cercavano e sospiravano, il Messia delle genti, è arrivato. Tenendo desta l’attesa del Signore, diventano capaci di accoglierlo nella novità della sua venuta.

Fratelli e sorelle, l’attesa di Dio è importante anche per noi, per il nostro cammino di fede. Ogni giorno il Signore ci visita, ci parla, si svela in modo inaspettato e, alla fine della vita e dei tempi, verrà. Perciò Egli stesso ci esorta a restare svegli, a vigilare, a perseverare nell’attesa. La cosa peggiore che può capitarci, infatti, è scivolare nel “sonno dello spirito”: addormentare il cuore, anestetizzare l’anima, archiviare la speranza negli angoli oscuri delle delusioni e delle rassegnazioni.

Penso a voi, sorelle e fratelli consacrati, e al dono che siete; penso a ciascuno di noi cristiani di oggi: siamo ancora capaci di vivere l’attesa? Non siamo a volte troppo presi da noi stessi, dalle cose e dai ritmi intensi di ogni giornata, al punto da dimenticarci di Dio che sempre viene? Non siamo forse troppo rapiti dalle nostre opere di bene, rischiando di trasformare anche la vita religiosa e cristiana nelle “tante cose da fare” e tralasciando la ricerca quotidiana del Signore? Non rischiamo a volte di programmare la vita personale e la vita comunitaria sul calcolo delle possibilità di successo, invece che coltivare con gioia e umiltà il piccolo seme che ci è affidato, nella pazienza di chi semina senza pretendere nulla e di chi sa aspettare i tempi e le sorprese di Dio? A volte – dobbiamo riconoscerlo – abbiamo smarrito questa capacità di attendere. Ciò dipende da diversi ostacoli, e tra questi vorrei sottolinearne due.

Il primo ostacolo che ci fa perdere la capacità di attendere è la trascuratezza della vita interiore. È quello che succede quando la stanchezza prevale sullo stupore, quando l’abitudine prende il posto dell’entusiasmo, quando perdiamo la perseveranza nel cammino spirituale, quando le esperienze negative, i conflitti o i frutti che sembrano tardare ci trasformano in persone amare e amareggiate. Non fa bene masticare l’amarezza, perché in una famiglia religiosa – come in ogni comunità e famiglia – le persone amareggiate e con la “faccia scura” appesantiscono l’aria; quelle persone che sembrano avere aceto nel cuore. Occorre allora recuperare la grazia smarrita: andare indietro e attraverso un’intensa vita interiore, ritornare allo spirito di umiltà gioiosa, di gratitudine silenziosa. E questo si alimenta con l’adorazione, con il lavoro di ginocchia e di cuore, con la preghiera concreta che lotta e intercede, capace di risvegliare il desiderio di Dio, l’amore di un tempo, lo stupore del primo giorno, il gusto dell’attesa.

Il secondo ostacolo è l’adeguamento allo stile del mondo, che finisce per prendere il posto del Vangelo. E il nostro è un mondo che spesso corre a gran velocità, che esalta il “tutto e subito”, che si consuma nell’attivismo e cerca di esorcizzare le paure e le angosce della vita nei templi pagani del consumismo o nello svago a tutti i costi. In un contesto del genere, dove il silenzio è bandito e smarrito, attendere non è facile, perché richiede un atteggiamento di sana passività, il coraggio di rallentare il passo, di non lasciarci travolgere dalle attività, di fare spazio dentro di noi all’azione di Dio, come insegna la mistica cristiana. Facciamo attenzione, allora, perché lo spirito del mondo non entri nelle nostre comunità religiose, nella vita ecclesiale e nel cammino di ciascuno di noi, altrimenti non porteremo frutto. La vita cristiana e la missione apostolica hanno bisogno che l’attesa, maturata nella preghiera e nella fedeltà quotidiana, ci liberi dal mito dell’efficienza, dall’ossessione del rendimento e, soprattutto, dalla pretesa di rinchiudere Dio nelle nostre categorie, perché Egli viene sempre in modo imprevedibile, viene sempre in tempi che non sono nostri e in modi che non sono quelli che ci aspettiamo.

Come afferma la mistica e filosofa francese Simone Weil, noi siamo la sposa che attende nella notte l’arrivo dello sposo, e «la parte della futura sposa è l’attesa […]. Desiderare Dio e rinunciare a tutto il resto: in ciò soltanto consiste la salvezza» (S. Weil, Attesa di Dio, Milano 1991, 152). Sorelle, fratelli, coltiviamo nella preghiera l’attesa del Signore e impariamo la buona “passività dello Spirito”: così saremo capaci di aprirci alla novità di Dio.

Come Simeone, prendiamo in braccio anche noi il Bambino, il Dio della novità e delle sorprese. Accogliendo il Signore, il passato si apre al futuro, il vecchio che è in noi si apre al nuovo che Lui suscita. Questo non è semplice – lo sappiamo – perché, nella vita religiosa come in quella di ogni cristiano, è difficile opporsi alla “forza del vecchio”: «non è facile infatti che il vecchio che è in noi accolga il bambino, il nuovo – accogliere il nuovo, nella nostra vecchiaia accogliere il nuovo –. […] La novità di Dio si presenta come un bambino e noi, con tutte le nostre abitudini, paure, timori, invidie – pensiamo alle invidie! –, preoccupazioni, siamo di fronte a questo bambino. Lo abbracceremo, lo accoglieremo, gli faremo spazio? Questa novità entrerà davvero nella nostra vita o piuttosto tenteremo di mettere insieme vecchio e nuovo, cercando di lasciarci disturbare il meno possibile dalla presenza della novità di Dio?» (C.M. Martini, Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera, Milano 2009, 32-33).

Fratelli e sorelle, queste domande sono per noi, per ognuno di noi, sono per le nostre comunità, sono per la Chiesa. Lasciamoci inquietare, lasciamoci muovere dallo Spirito, come Simeone e Anna. Se come loro vivremo l’attesa nella custodia della vita interiore e nella coerenza con lo stile del Vangelo, se come loro vivremo così l’attesa, abbracceremo Gesù, che è luce e speranza della vita.

Messaggio del Santo Padre per la 47ma Sessione del Consiglio dei Governatori del "Fondo Internacional de Desarrollo Agrícola" (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, IFAD) (2 febbraio 2024)

Ven, 02/02/2024 - 13:30

Signor presidente del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo,
signori delegati e rappresentanti permanenti degli Stati membri,
distinti signori e signore,

Sono lieto di rivolgermi a voi in occasione di questo incontro del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo e colgo l’occasione per trasmettervi il mio cordiale saluto. Desidero ringraziarvi per l’impegno, il tempo e le energie che dedicate a lottare per un mondo migliore, dove nessuno veda lesa la propria dignità e dove la fraternità diventi una realtà, fonte di gioia e di speranza per tutti.

Oggi, il nostro mondo si trova di fronte a una dicotomia straziante. Da un lato, milioni di persone sono afflitte dalla fame mentre, dall’altro, una grande insensibilità si manifesta nello spreco di cibo. Gli alimenti che ogni anno si buttano via generano masse di gas a effetto serra, mentre una distribuzione corretta basterebbe ad alimentare tutti quelli che soffrono la fame.

Sono tempi di precarietà. Stiamo portando il mondo a limiti pericolosi: il clima sta cambiando, le risorse vengono saccheggiate; i conflitti e la crisi economica minacciano la sussistenza di milioni di persone. Di fronte alla crisi, le comunità rurali sono le prime a essere colpite, poiché non dispongono delle risorse per far fronte alla situazione generata dal cambiamento climatico e dalle ostilità, e si vedono escluse dall’accesso al finanziamento. Anche i popoli indigeni sono vittime di sofferenze, privazioni e abusi. Sebbene le loro conoscenze sulla gestione delle risorse naturali e il loro legame con l’ambiente possano contribuire a conservare la biodiversità.

Un altro gruppo trascurato sono le donne, pilastro di più della metà delle famiglie che soffrono d’insicurezza alimentare nelle zone rurali, dove inoltre molti giovani sono privi di formazione, risorse e opportunità. La gioventù è il futuro delle nostre comunità rurali e in essa risiede un importante potenziale di innovazione e di cambiamento positivo.

Signor presidente, questa realtà ci spinge a far fronte ai problemi esistenti, in particolare, alla fame e alla miseria, non accontentandoci di strategia astratte o impegni irrealizzabili, ma coltivando la speranza che nasce da un’azione collettiva. Collaboriamo alla costruzione di un sistema agricolo e alimentare più inclusivo. A ciò contribuiranno anche i programmi di ricerca e tecnologia volti a favorire un’agricoltura sostenibile e rispettosa dell’ambiente. È inoltre fondamentale eliminare lo spreco alimentare e sostenere una distribuzione equa delle risorse. Il solo fatto di investire nel trasporto e nello stoccaggio può ridurre le perdite dei piccoli agricoltori, che producono un terzo degli alimenti che si consumano ogni giorno.

Invoco l’aiuto divino su tutti voi, affinché la saggezza, l’empatia e uno spirito di leale cooperazione e servizio guidino le vostre deliberazioni e si possano eliminare le cause dell’esclusione, la povertà e la cattiva gestione delle risorse, oltre agli effetti delle crisi climatiche. Che le vostre proposte e azioni riflettano i valori universali di giustizia, solidarietà e compassione, e siano orientate al bene comune e al lavoro per la pace e l’amicizia sociale, generando cambiamenti a favore dello sviluppo integrale dell’umanità.

Vaticano, 2 febbraio 2024.

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 38, giovedì 15 febbraio 2024, p. 7.

Alla Delegazione della Federazione Nazionale Italia Cina (2 febbraio 2024)

Ven, 02/02/2024 - 11:00

Fratelli e sorelle, benvenuti, buongiorno!

Sono lieto di accogliervi e vi ringrazio per la vostra visita, in occasione del decimo anniversario della nascita della Federazione Nazionale Italia Cina e nel contesto dei festeggiamenti per il Capodanno Cinese. E complimenti per questo che voi avete fatto, per quest’arte, tanto bella, e anche per il pensiero. Grazie!

Da tempo, ormai, oltre a organizzare gli eventi per la festa di Capodanno, sostenete molteplici iniziative che intendono promuovere il dialogo tra Italia e Cina, affrontando le sfide relative all’integrazione culturale, all’educazione, ai valori sociali da condividere. Esprimo il mio apprezzamento e vi incoraggio a proseguire il cammino intrapreso e a perseguire queste finalità con impegno generoso, affinché la reciproca conoscenza tra la comunità Italiana e quella Cinese possa contribuire ad accrescere l’accoglienza vicendevole e lo spirito di fraternità.

Formulo a voi tutti questo augurio, ringraziando anche l’Accademia di Arti Marziali Cinesi di Vercelli per le danze folkloristiche ispirate al Leone e al Drago, che nella tradizione del nobile popolo cinese intendono esprimere l’auspicio che il nuovo anno sia fecondo e ricco di bene. Gli acrobati, come sappiamo, sono specializzati in esercizi e spettacoli audaci, diciamo “ad alto rischio”; osservando questa danza acrobatica, allora, auguro a tutti voi di saper rischiare sempre sulla strada del dialogo, diventando “acrobati di pace e di fraternità”.

Vi accompagno con la mia preghiera e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie!

Lettera del Santo Padre ai fratelli e alle sorelle ebrei in Israele (2 febbraio 2024)

Ven, 02/02/2024 - 08:00

Città del Vaticano, 2 febbraio 2024

Cari fratelli e sorelle,

stiamo vivendo un momento di travaglio doloroso. Guerre e divisioni stanno aumentando in tutto il mondo. Siamo davvero, come ho detto tempo addietro, in una sorta di “guerra mondiale a pezzi”, con gravi conseguenze per la vita di molte popolazioni.

Anche la Terra Santa, purtroppo, non è stata risparmiata da questo dolore, e dal 7 ottobre è precipitata in una spirale di violenza senza precedenti. Il mio cuore è lacerato alla vista di quanto accade in Terra Santa, dalla potenza di tante divisioni e di tanto odio.

Tutto il mondo guarda a quanto accade in quella Terra con apprensione e con dolore. Sono sentimenti che esprimono vicinanza speciale e affetto verso i popoli che abitano la terra che è stata testimone della storia della Rivelazione.

Purtroppo, bisogna tuttavia constatare che questa guerra ha prodotto nelle opinioni pubbliche mondiali anche atteggiamenti di divisione, che a volte sfociano in forme di antisemitismo e antigiudaismo. Non posso che ribadire quanto anche i miei Predecessori hanno affermato chiaramente più volte: il rapporto che ci lega a voi è particolare e singolare, senza mai oscurare, naturalmente, il rapporto che la Chiesa ha con gli altri e l'impegno anche nei loro confronti. Il percorso che la Chiesa ha avviato con voi, l’antico popolo dell’alleanza, rifiuta ogni forma di antigiudaismo e antisemitismo, condannando inequivocabilmente le manifestazioni di odio verso gli ebrei e l’ebraismo, come un peccato contro Dio. Insieme a voi, noi cattolici siamo molto preoccupati per il terribile aumento degli attacchi contro gli ebrei in tutto il mondo. Avevamo sperato che “mai più” fosse un ritornello ascoltato dalle nuove generazioni, eppure ora vediamo che il percorso da fare richiede una collaborazione sempre più stretta per sradicare questi fenomeni.

Il mio cuore è vicino a voi, alla Terra Santa, a tutti i popoli che la abitano, israeliani e palestinesi, e prego perché prevalga su tutti il desiderio della pace. Voglio che sappiate che siete vicini al mio cuore e al cuore della Chiesa. Alla luce delle numerose comunicazioni che mi sono state recapitate da vari amici e organizzazioni ebraiche di tutto il mondo e della vostra lettera, che apprezzo molto, sento il desiderio di assicurarvi la mia vicinanza e il mio affetto. Abbraccio ciascuno di voi, e in particolare coloro che sono consumati dall'angoscia, dal dolore, dalla paura e anche dalla rabbia. Le parole sono così difficili da formulare di fronte a una tragedia come quella avvenuta negli ultimi mesi. Insieme a voi, piangiamo i morti, i feriti, i traumatizzati, supplicando Dio Padre di intervenire e porre fine alla guerra e all'odio, questi cicli incessanti che mettono in pericolo tutto il mondo. In modo speciale, preghiamo per il ritorno degli ostaggi, rallegrandoci per quelli che sono già tornati a casa, e pregando affinché tutti gli altri si uniscano presto a loro.

Desidero anche aggiungere che non bisogna mai perdere la speranza per una pace possibile e che dobbiamo fare di tutto per promuoverla, rifiutando ogni forma di disfattismo e di sfiducia. Dobbiamo guardare a Dio, la sola fonte di una speranza certa. Come ho detto dieci anni fa, «la storia insegna che i nostri poteri non sono sufficienti. Più di una volta siamo stati sull'orlo della pace, ma il maligno, utilizzando diversi mezzi, è riuscito a bloccarla. Per questo siamo qui, perché sappiamo e crediamo che abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio. Non rinunciamo alle nostre responsabilità, ma invochiamo Dio in un atto di suprema responsabilità davanti alle nostre coscienze e davanti ai nostri popoli. Abbiamo ascoltato una convocazione e dobbiamo rispondere. È l’invito a spezzare la spirale dell’odio e della violenza, e a spezzarla con una sola parola: la parola “fratello”. Ma per poter pronunciare questa parola dobbiamo alzare gli occhi al cielo e riconoscerci figli di un solo Padre» (Giardini vaticani, 8 giugno 2014).

In tempi di desolazione, abbiamo grande difficoltà a vedere un orizzonte futuro in cui la luce sostituisca l’oscurità, in cui l’amicizia sostituisca l’odio, in cui la cooperazione sostituisca la guerra. Tuttavia, noi, come ebrei e cattolici, siamo testimoni proprio di un simile orizzonte. E dobbiamo farlo, cominciando innanzitutto proprio dalla Terra Santa, dove insieme vogliamo lavorare per la pace e per la giustizia, facendo il possibile per creare relazioni capaci di aprire nuovi orizzonti di luce per tutti, israeliani e palestinesi.

Entrambi, ebrei e cattolici, dobbiamo impegnarci in questo percorso di amicizia, solidarietà e cooperazione nella ricerca di modi per riparare un mondo distrutto, lavorando insieme in ogni parte del mondo, e soprattutto in Terra Santa, per recuperare la capacità di vedere nel volto di ogni persona l’immagine di Dio, nella quale siamo stati creati.

Abbiamo ancora molto da fare insieme per garantire che il mondo che lasceremo a chi verrà dopo di noi sia migliore, ma sono certo che potremo continuare a collaborare insieme per questo scopo.

Vi abbraccio fraternamente.

Francesco

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Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, 3 febbraio 2024

Alla Delegazione della "University of Notre Dame" (Indiana, U.S.A.) (1° febbraio 2024)

Gio, 01/02/2024 - 08:45

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Do un caloroso benvenuto a tutti voi, al vostro Presidente, Padre John Jenkins, ai membri del Board of Trustees dell’Università di Notre Dame e alle Autorità Accademiche.

Fin dalla sua fondazione, l’Università di Notre Dame si è dedicata all’incremento della missione della Chiesa di annunciare il Vangelo attraverso la formazione di ogni persona in tutte le sue dimensioni. Infatti, come diceva il Beato Basil Moreau, «l’educazione cristiana è l’arte di condurre i giovani verso la pienezza». E non solo con la testa! I tre linguaggi: della testa, del cuore e delle mani. Questo è il segreto dell’educazione: che si pensi quello che si sente e si fa, che si senta quello che si pensa e si fa, che si faccia quello che si sente e si pensa. Questo è il nocciolo, non dimenticare. E, a tale proposito, vorrei riflettere un momento con voi su questi tre linguaggi: quelli della testa, del cuore e delle mani. Essi, assieme, formano un orizzonte entro cui le comunità accademiche cattoliche possono adoperarsi a formare personalità solide e ben integrate, la cui visione della vita sia animata dagli insegnamenti di Cristo.

Primo: la testa. Per loro propria natura, le università cattoliche si impegnano a perseguire lo sviluppo della conoscenza attraverso lo studio accademico e la ricerca. Nel mondo globalizzato, questo comporta la necessità di un approccio collaborativo e interdisciplinare, che unisca vari campi di studio e di indagine. Gli sforzi educativi intrapresi dalle istituzioni cattoliche, infatti, si fondano sulla ferma convinzione dell’intrinseca armonia tra fede e ragione, da cui scaturisce la rilevanza del messaggio cristiano per tutti gli ambiti della vita, personale e sociale. Ne consegue che sia gli educatori sia gli studenti sono chiamati ad apprezzare sempre più, oltre al valore dell’apprendimento in generale, la ricchezza della tradizione intellettuale cattolica in particolare. C’è una tradizione intellettuale, questo non vuol dire chiusura, no, è apertura! C’è una tradizione intellettuale che noi dobbiamo conservare e far crescere sempre.

Il compito di un’università cattolica, però, non è solo quello di sviluppare la mente, la testa: deve dilatare il cuore. Se si pensa e non si sente noi non siamo umani. L’intera comunità universitaria è chiamata perciò ad accompagnare le persone, soprattutto i giovani, con saggezza e rispetto, nei sentieri della vita e ad aiutarle a coltivare un’apertura verso tutto quello che è vero, buono e bello. Ciò richiede di stabilire relazioni genuine tra educatori e studenti, perché possano camminare insieme e comprendere le domande, i bisogni e i sogni più profondi della vita. Vi lascio una domanda, ma ognuno di voi risponderà dopo: voi aiutate i giovani a sognare? Lascio la domanda. Significa anche promuovere il dialogo e la cultura dell’incontro, affinché tutti possano imparare a riconoscere, apprezzare e amare ciascuno come fratello e sorella e, prima di tutto, come figlio amato di Dio. In proposito, non possiamo trascurare il ruolo essenziale della religione nell’educazione del cuore delle persone. Per questo mi rallegro che l’Università di Notre Dame si caratterizzi per un’atmosfera che permette ad alunni, docenti e personale di crescere spiritualmente e di testimoniare la gioia del Vangelo, la sua forza trasformante per la società e la sua capacità di dare ad ognuno questa forza nell’affrontare con saggezza le sfide del nostro tempo.

Infine: le mani. Testa, cuore e mani. L’educazione cattolica ci impegna, tra le altre cose, a costruire un mondo migliore, insegnando la mutua convivenza, la solidarietà fraterna e la pace. Non possiamo rimanere chiusi entro le mura o i confini delle nostre istituzioni, ma dobbiamo sforzarci di uscire verso le periferie, per incontrare e servire Cristo nel nostro prossimo. A tale riguardo, incoraggio i continui sforzi che l’Università compie per promuovere nei suoi studenti l’impegno solidale per i bisogni delle comunità più svantaggiate.

Cari fratelli e sorelle, esprimo la mia gratitudine per il vostro servizio generoso nell’aiutare Notre Dame a rimanere costantemente fedele al suo carattere unico e alla sua identità di istituzione cattolica di istruzione superiore. Al tempo stesso, auspico che i vostri contributi continuino a valorizzarne l’eredità di solida educazione cattolica e le consentano di essere nella società, come desiderava il vostro fondatore, Padre Edward Sorin, “un potente mezzo per il bene”.

Vi ringrazio ancora per questa visita. Affido all’intercessione della Madonna l’intera comunità di Notre Dame e tutti coloro che sostengono la sua missione. Invoco su voi e sulle vostre famiglie i doni divini di saggezza, gioia e pace, e di cuore vi benedico. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

Udienza Generale del 31 gennaio 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 6. <i>L'ira</i>

Mer, 31/01/2024 - 09:00

Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

Catechesi. I vizi e le virtù. 6. L'ira

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In queste settimane stiamo trattando il tema dei vizi e delle virtù, e oggi ci soffermiamo a riflettere sul vizio dell’ira. È un vizio particolarmente tenebroso, ed è forse il più semplice da individuare da un punto di vista fisico. La persona dominata dall’ira difficilmente riesce a nascondere questo impeto: lo riconosci dalle mosse del suo corpo, dall’aggressività, dal respiro affannoso, dallo sguardo torvo e corrucciato.

Nella sua manifestazione più acuta l’ira è un vizio che non lascia tregua. Se nasce da un’ingiustizia patita (o ritenuta tale), spesso non si scatena contro il colpevole, ma contro il primo malcapitato. Ci sono uomini che trattengono l’ira sul posto di lavoro, dimostrandosi calmi e compassati, ma che una volta a casa diventano insopportabili per la moglie e i figli. L’ira è un vizio dilagante: è capace di togliere il sonno e di farci macchinare in continuazione nella mente, senza riuscire a trovare uno sbarramento ai ragionamenti e ai pensieri.

L’ira è un vizio distruttivo dei rapporti umani. Esprime l’incapacità di accettare la diversità dell’altro, specialmente quando le sue scelte di vita divergono dalle nostre. Non si arresta ai comportamenti sbagliati di una persona, ma getta tutto nel calderone: è l’altro, l’altro così com’è, l’altro in quanto tale a provocare la rabbia e il risentimento. Si comincia a detestare il tono della sua voce, i banali gesti quotidiani, i suoi modi di ragionare e di sentire.

Quando la relazione arriva a questo livello di degenerazione, ormai si è smarrita la lucidità. L’ira fa perdere la lucidità. Perché una delle caratteristiche dell’ira, a volte, è quella di non riuscire a mitigarsi con il tempo. In quei casi, anche la distanza e il silenzio, anziché quietare il peso degli equivoci, lo ingigantiscono. È per questo motivo che l’apostolo Paolo – come abbiamo ascoltato – raccomanda ai suoi cristiani di affrontare subito il problema e di tentare la riconciliazione: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). È importante che tutto si sciolga subito, prima del tramonto del sole. Se durante il giorno può nascere qualche equivoco, e due persone possono non comprendersi più, percependosi improvvisamente lontane, la notte non va consegnata al diavolo. Il vizio ci terrebbe svegli al buio, a rimuginare le nostre ragioni e gli sbagli inqualificabili che non sono mai nostri e sempre dell’altro. È così: quando una persona è dominata dall’ira, sempre dice che il problema è dell’altro; mai è capace di riconoscere i propri difetti, le proprie mancanze.

Nel “Padre nostro” Gesù ci fa pregare per le nostre relazioni umane che sono un terreno minato: un piano che non sta mai in equilibrio perfetto. Nella vita abbiamo a che fare con debitori che sono inadempienti nei nostri confronti; come certamente anche noi non abbiamo sempre amato tutti nella giusta misura. A qualcuno non abbiamo restituito l’amore che gli spettava. Siamo tutti peccatori, tutti, e tutti abbiamo i conti in rosso: non dimenticare questo! Perciò tutti abbiamo bisogno di imparare a perdonare per essere perdonati. Gli uomini non stanno insieme se non si esercitano anche nell’arte del perdono, per quanto questo sia umanamente possibile. Ciò che contrasta l’ira è la benevolenza, la larghezza di cuore, la mansuetudine, la pazienza.

Ma, a proposito dell’ira, c’è da dire un’ultima cosa. È un vizio terribile, si diceva, sta all’origine di guerre e di violenze. Il proemio dell’Iliade descrive “l’ira di Achille”, che sarà causa di “infiniti lutti”. Ma non tutto ciò che nasce dall’ira è sbagliato. Gli antichi erano ben consapevoli che in noi sussiste una parte irascibile che non può e non deve essere negata. Le passioni in qualche misura sono inconsapevoli: capitano, sono esperienze della vita. Non siamo responsabili dell’ira nel suo sorgere, ma sempre nel suo sviluppo. E qualche volta è bene che l’ira si sfoghi nella giusta maniera. Se una persona non si arrabbiasse mai, se non si indignasse davanti a un’ingiustizia, se davanti all’oppressione di un debole non sentisse fremere qualcosa nelle sue viscere, allora vorrebbe dire che quella persona non è umana, e tantomeno cristiana.

Esiste una santa indignazione, che non è l’ira ma un movimento interiore, una santa indignazione. Gesù l’ha conosciuta diverse volte nella sua vita (cfr Mc 3,5): non ha mai risposto al male con il male, ma nel suo animo ha provato questo sentimento e, nel caso dei mercanti nel Tempio, ha compiuto un’azione forte e profetica, dettata non dall’ira, ma dallo zelo per la casa del Signore (cfr Mt 21,12-13). Dobbiamo distinguere bene: una cosa è lo zelo, la santa indignazione, un’altra cosa è l’ira, che è cattiva.

Sta a noi, con l’aiuto dello Spirito Santo, trovare la giusta misura delle passioni, educarle bene, perché si volgano al bene e non al male. Grazie.

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Saluti

Je salue cordialement les personnes de langue française, particulièrement les jeunes provenant des établissements scolaires de France. Frères et sœurs, apprenons à nous exercer à l’art de la réconciliation et du pardon afin de vaincre le vice de la colère et d’ouvrir des voies de paix dans nos relations quotidiennes. Que Dieu vous bénisse !

[Saluto cordialmente le persone di lingua francese, in particolare i giovani provenienti dagli Istituti scolastici di Francia. Fratelli e sorelle, impariamo a praticare l’arte della riconciliazione e del perdono per superare il vizio dell’ira e aprire vie di pace nelle nostre relazioni quotidiane. Dio vi benedica!]

I greet all the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially those coming from the United States of America. Upon all of you, and upon your families, I invoke the joy and peace of Our Lord Jesus Christ. God bless you!

[Do il benvenuto ai pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza, specialmente ai gruppi provenienti dagli Stati Uniti d’America. Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo! Dio vi benedica!]

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, der heilige Johannes Bosco hat vielen jungen Menschen in ihrer Not geholfen und sie mit seinem apostolischen Eifer zu Christus geführt. Bezeugen auch wir der Jugend, dass Christus in unser Leben kommen möchte, um es mit der Freude zu erfüllen, die nur er geben kann.

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, San Giovanni Bosco ha aiutato molti giovani nelle loro difficoltà e, con il suo zelo apostolico, li ha portati a Cristo. Testimoniamo anche noi alla gioventù che Cristo vuole entrare nella nostra vita per colmarla di quella gioia che solo Lui può dare.]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española. Pidamos al Señor ser conscientes de nuestra debilidad frente a la ira, de modo que cuando surja podamos encauzarla positivamente, para que esta no nos domine, sino que la transformemos en un santo celo por el bien. Que Dios los bendiga. Muchas gracias.

Queridos peregrinos de língua portuguesa, a todos vos saúdo, convidando-vos a pedir ao Senhor uma fé grande para verdes a realidade com os olhos de Deus, e uma grande caridade para vos aproximardes das pessoas com o seu coração misericordioso. Sobre vós e vossas famílias, desça a bênção do Senhor.

[Nel salutarvi tutti, cari pellegrini di lingua portoghese, vi invito a chiedere al Signore una fede grande per guardare la realtà con lo sguardo di Dio, e una grande carità per accostare le persone con il suo cuore misericordioso. Su di voi e sulle vostre famiglie, scenda la benedizione del Signore.]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العربِيَّة. اليومَ في تذكارِ القدِّيسِ يوحنَّا بوسكو الَّذي اهتَمَّ كثيرًا بالشَّباب، أدعُوكم إلى أنْ تَقتَدُوا بِه، فَتُرَبُّوا الشَّبابَ على الايمانِ وتُنَشِّئوهم على مختلفِ العُلومِ والمِهَن، مِن أجلِ مستقبلٍ أَفضلَ فيهِ تَنعَمُ البشريَّةُ بالسَّلامِ والأُخُوَّةِ والطُّمأنينَة. بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِنْ كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Oggi, nella memoria di San Giovanni Bosco, che ebbe molta cura dei giovani, vi invito a imitarlo, educando i giovani alla fede e formandoli nelle diverse scienze e professioni, per un futuro migliore, in cui l’umanità possa godere di pace, fratellanza e tranquillità. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga ‎sempre da ogni male‎!]

Serdecznie pozdrawiam polskich pielgrzymów. Nowy Rok rozpoczęliśmy od zaproszenia do budowania pokoju na świecie, w Ojczyźnie, w rodzinie, w swoim sercu. Pamiętajcie, że pokój można budować tylko na prawdzie. Niech troska o wspólne dobro, właściwe panowanie nad gniewem i wzajemne przebaczenie, jeden drugiemu, pomogą wam budować cywilizację miłości w waszej obecnej sytuacji. Z serca błogosławię wam i waszym rodzinom.

[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Abbiamo iniziato il Nuovo Anno con l'invito a costruire la pace nel mondo, nella vostra Patria, nelle vostre famiglie, nel vostro cuore. Ricordate che la pace può essere costruita solo sulla verità. La sollecitudine per il bene comune, il giusto controllo dell'ira e il perdono reciproco, uno con l’altro, vi aiutino a costruire la civiltà dell'amore nella vostra situazione attuale. Benedico di cuore voi e le vostre famiglie.]

* * *

Domani, in Italia, si celebra la Giornata Nazionale Vittime Civili di Guerra. Al ricordo orante per quanti sono deceduti nei due conflitti mondiali, associamo anche i tanti – troppi – civili, vittime inermi delle guerre che purtroppo insanguinano ancora il nostro pianeta, come accade in Medio Oriente e in Ucraina. Il loro grido di dolore possa toccare i cuori dei responsabili delle Nazioni e suscitare progetti di pace. Quando si leggono storie di questi giorni, nella guerra, c’è tanta crudeltà, tanta! Chiediamo al Signore la pace, che è sempre mite, non è crudele.

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i sacerdoti che partecipano al corso di formazione promosso dalla Pontificia Università della santa Croce, i fedeli della parrocchia Cristo Divino Lavoratore di Ancona, gli alunni dell’Istituto Caetani di Cisterna di Latina, la banda musicale di Villa Santo Stefano.

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Invoco su di voi la protezione di San Giovanni Bosco, che oggi la Chiesa ricorda, affinché possa rendere feconda la vocazione di ciascuno nella Chiesa e nel mondo. A tutti la mia Benedizione!

Ai dirigenti e dipendenti di TV2000 e di Radio InBlu (29 gennaio 2024)

Lun, 29/01/2024 - 10:30

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono contento di accogliervi in occasione del 25° anniversario della nascita di TV2000 e del circuito inBlu2000. Saluto Mons. Giuseppe Baturi, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana, e Mons. Piero Coccia, Presidente della Fondazione “Comunicazione e Cultura” e di “Rete Blu”, e tutti voi che lavorate in questi media.

Sono passati dieci anni dal nostro precedente incontro e molto è cambiato nel panorama mediatico. L’innovazione tecnologica ha trasformato le modalità di produzione dei contenuti, così come la loro fruizione; e ora l’intelligenza artificiale «sta modificando in modo radicale anche l’informazione e la comunicazione e, attraverso di esse, alcune basi della convivenza civile» (Messaggio per la LVIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali).

In questo vortice, che pare trascinare non solo gli operatori del settore ma un po’ tutti noi, ci sono tuttavia alcuni principi che restano fissi, come stelle alle quali guardare per orientarsi e non smarrire la rotta. E ciò riguarda in modo particolare voi, che, insieme al quotidiano “Avvenire” e all’Agenzia Sir, avete un’appartenenza ben precisa: la Conferenza Episcopale Italiana. Questo non è un limite, anzi è espressione di una grande libertà, perché ricorda che la comunicazione e l’informazione hanno sempre le radici nell’umano. E, ancora, sottolinea l’importanza di incarnare la fede nella cultura, in particolare attraverso la testimonianza, narrando storie in cui il buio che è intorno a noi non spenga il lume della speranza. È fondamentale ricordare e vivere questa appartenenza. Per questo vorrei indicarvi tre parole per proseguire sulla strada del vostro lavoro.

La prima è prossimità, essere prossimo. Ogni giorno – tramite la televisione o la radio – vi fate vicini a tante persone, che trovano in voi degli amici da cui ricevere informazioni, con cui trascorrere piacevolmente del tempo, o andare alla scoperta di realtà, esperienze e luoghi nuovi. E questa prossimità si estende anche ai territori e alle periferie dove la gente abita. A me piace pensare che la prossimità è una delle qualità di Dio che si è fatto prossimo a noi. Sono tre le cose che fanno vedere Dio: la prossimità: si fa prossimo; la tenerezza: Dio è tenero; la compassione: sempre perdona. Non dimenticatevi questo: prossimità, compassione e tenerezza. Vi incoraggio a continuare a creare reti, a tessere legami, a raccontare il bello e il buono delle nostre comunità – con prossimità –, a rendere protagonisti quanti solitamente finiscono a fare le comparse o non vengono nemmeno presi in considerazione. La comunicazione – lo sappiamo – rischia di appiattirsi su alcune logiche dominanti, di piegarsi al potere o addirittura di costruire fake news. Non cadete nella tentazione di allinearvi, andate controcorrente, sempre consumando le suole delle scarpe e incontrando la gente. Solo così potete essere “autentici per vocazione”, come dice un vostro slogan. E non dimenticate mai quanti sono ai margini, le persone povere, le persone sole e, più brutto ancora, le persone scartate.

La prima parola era prossimità, la seconda che vi lascio è cuore, nella pregnanza del suo senso biblico e della tradizione cristiana. In questi ultimi anni l’avete ritrovata spesso nei Messaggi per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali. Potrebbe sembrare fuori luogo accostare il cuore al mondo tecnologico, come è ormai quello della comunicazione, invece tutto nasce da lì. Non si può osservare un fatto, non si può intervistare qualcuno, non si può raccontare qualcosa se non a partire dal cuore. Infatti, il comunicare non si risolve nella trasmissione di una teoria o nell’esecuzione di una tecnica, ma è un’arte che ha al centro la «capacità del cuore che rende possibile la prossimità» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 171). Ciò permette di fare spazio all’altro – restringendo un po’ quello dell’io –, di liberarci dalle catene dei pregiudizi, di dire la verità senza separarla dalla carità. Mai separare i fatti dal cuore! E poi, avere coraggio. Non è un caso che “coraggio” derivi da cor. Chi ha cuore ha anche il coraggio di essere alternativo, senza però diventare polemico o aggressivo; di essere credibile, senza avere la pretesa di imporre il proprio punto di vista; di essere costruttore di ponti. E questo è molto importante: un comunicatore possiamo pensarlo come un ponte, perché il comunicatore necessariamente è un costruttore di ponti.

E la terza parola è responsabilità. Ognuno deve fare la propria parte per assicurare che ogni forma di comunicazione sia obiettiva, rispettosa della dignità umana e attenta al bene comune. In questo modo, potremo ricucire le fratture, trasformare l’indifferenza in accoglienza e relazione. Il vostro è uno di quei mestieri che hanno il carattere della vocazione: siete chiamati a essere messaggeri che informano con rispetto, con competenza, contrastando divisioni e discordie. E sempre ricordando che al centro di ogni servizio, di ogni articolo, di ogni programma c’è la persona: non dimenticare questo. È proprio ciò che dà senso alla comunicazione.

Cari amici, dieci anni fa avete avviato una fase di ripensamento e riorganizzazione del vostro lavoro; in questi giorni avete aggiunto un ulteriore tassello con il lancio della vostra “App”. Che anch’essa contribuisca a comunicare con prossimità, cuore e responsabilità. Andate avanti su questa strada, ricordando quello che diceva il vostro Patrono San Francesco di Sales: «Non è per la grandezza delle nostre azioni che noi piaceremo a Dio, ma per l’amore con cui le compiamo» (Trattenimenti spirituali). Vi benedico di cuore. E vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie!

Alla delegazione del "Real Club de Tenis Barcelona" (29 gennaio 2024)

Lun, 29/01/2024 - 10:00

È per me un piacere accogliervi in occasione del 125° anniversario della vostra fondazione come club sportivo, e sono lieto di poter sottolineare ancora una volta le opportunità che lo sport offre per la crescita di ogni persona e della società. E oggi dobbiamo congratularci con gli italiani perché ieri hanno vinto in Australia, quindi congratulazioni anche a loro.

Il tennis in particolare, non essendo uno sport di squadra, bensì individuale o di coppia, presenta un aspetto interessante per la nostra riflessione. Sembrerebbe che la sfida tra giocatori abbia a che vedere soprattutto con il desiderio di prevalere sull’avversario. Tuttavia, guardando alla storia del vostro club, si può osservare che in realtà, fin dalla sua origine inglese, è espressione dell’apertura dei fondatori a ciò che di buono poteva venire dall’esterno e a un dialogo con altre culture, che ha permesso loro di dar vita a nuove realtà.

Questa è una lezione tanto valida per i nostri giorni quanto lo è stata 125 anni fa. Nel tennis, come nella vita, non possiamo vincere sempre, ma sarà una sfida che arricchisce se, giocando in modo educato e secondo le regole, impareremo che non è una lotta ma un dialogo che implica il nostro sforzo e ci consente di migliorarci. Concepire un po’ lo sport non solo come una lotta, ma anche come dialogo. Si instaura un dialogo che, nel caso del tennis, molte volte riesce a diventare artistico.

Nel campo di gioco come nell’esistenza, a volte ci sentiamo soli, altre volte sostenuti da chi gioca con noi questa partita della vita. Ma, anche quando giochiamo “singoli”, siamo sempre alla presenza del Signore che ci insegna che cosa significa il rispetto, la comprensione e il bisogno di una comunicazione costante con l’altro.

Per concludere, mi permetto di dirvi un’ultima cosa, voi avete formato figure del tennis internazionale, ed è una grande sfida, ma quando lavoriamo con questi bambini, che sognano un futuro sportivo di eccellenza, le esigenze dell’allenamento non possono prevalere sulla loro crescita integrale; non c’è niente di più importante di questo sviluppo umano e spirituale. E lo sport deve aiutare questo sviluppo, non essere il centro, ma aiutare questo. Perciò vi chiedo: prendetevi cura dei bambini, prendetevi cura di quanti possono beneficiare dei valori dello sport in ambiti sociali complessi, e anche di quanti potrebbero avere successo in competizioni di alto livello. Che non smettano di essere bambini! Grazie. 
 

[Benedizione]

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 23, lunedì 29 gennaio 2024, p. 10.

Angelus, 28 gennaio 2024

Dom, 28/01/2024 - 12:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo odierno ci presenta Gesù mentre libera una persona posseduta da uno “spirito maligno” (cfr Mc 1,21-28), che la straziava e continuava a farla gridare (cfr vv. 23.26). Così fa il diavolo: vuole possedere per “incatenarci l’anima”. Incatenarci l’anima: questo vuole il diavolo. E noi dobbiamo stare attenti alle “catene” che ci soffocano la libertà. Perché il diavolo ti toglie la libertà, sempre. Proviamo allora a dare dei nomi ad alcune di queste catene che possono stringerci il cuore.

Penso alle dipendenze, che rendono schiavi, sempre insoddisfatti, e divorano energie, beni e affetti; penso alle mode dominanti, che spingono a perfezionismi impossibili, al consumismo e all’edonismo, che mercificano le persone e ne guastano le relazioni. E altre catene: ci sono le tentazioni e i condizionamenti che minano l’autostima, la serenità e la capacità di scegliere e di amare la vita; un’altra catena: la paura, che fa guardare al futuro con pessimismo, e l’insofferenza, che getta la colpa sempre sugli altri; e poi c’è la catena molto brutta: l’idolatria del potere, che genera conflitti e ricorre ad armi che uccidono o si serve dell’ingiustizia economica e della manipolazione del pensiero. Tante catene ci sono nella nostra vita.

E Gesù è venuto a liberarci da tutte queste catene. E oggi, alla sfida del diavolo che gli grida: «Che vuoi […]? Sei venuto a rovinarci?» (v. 24), risponde: «Taci! Esci da lui!» (v. 25). Gesù ha il potere di cacciare via il diavolo. Gesù libera dal potere del male, e stiamo attenti: caccia via il diavolo ma non dialoga con lui! Mai Gesù ha dialogato con il diavolo; e quando è stato tentato nel deserto, le sue risposte erano parole della Bibbia, mai un dialogo. Fratelli e sorelle, con il diavolo non si dialoga! State attenti: con il diavolo non si dialoga, perché se tu ti metti a dialogare con lui, vince lui, sempre. State attenti.

Cosa fare allora quando ci sentiamo tentati e oppressi? Negoziare con il diavolo? No, non si negozia con lui. Dobbiamo invocare Gesù: invocarlo lì, dove sentiamo che le catene del male e della paura stringono più fortemente. Il Signore, con la forza del suo Spirito, desidera ripetere anche oggi al maligno: “Vattene, lascia in pace quel cuore, non dividere il mondo, le famiglie, le comunità; lasciale vivere serene, perché vi fioriscano i frutti del mio Spirito, non i tuoi – così dice Gesù –, perché tra loro regnino l’amore, la gioia, la mitezza, e al posto di violenze e grida di odio ci siano libertà e pace”.

Chiediamoci allora: io voglio davvero la libertà da quelle catene che mi stringono il cuore? E poi, so dire “no” alle tentazioni del male, prima che si insinuino nell’anima? Infine, invoco Gesù, gli permetto di agire in me, per risanarmi dentro?

La Vergine Santa ci custodisca dal male

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Ormai da tre anni il pianto del dolore e il rumore delle armi hanno preso il posto del sorriso che caratterizza la popolazione del Myanmar. Mi unisco perciò alla voce di alcuni Vescovi birmani, «affinché le armi della distruzione si trasformino in strumenti per crescere in umanità e giustizia». La pace è un cammino e invito tutte le parti coinvolte a muovere passi di dialogo e a rivestirsi di comprensione, perché la terra del Myanmar raggiunga la meta della riconciliazione fraterna. Sia consentito il transito di aiuti umanitari per garantire il necessario ad ogni persona.

E lo stesso avvenga in Medio Oriente, Palestina e Israele, e ovunque si combatte: si rispettino le popolazioni! Penso sempre in modo accorato a tutte le vittime, specialmente civili, causate dalla guerra in Ucraina. Per favore, si ascolti il loro grido di pace: il grido della gente, che è stanca della violenza e vuole che si fermi la guerra, che è un disastro per i popoli e disfatta per l’umanità!

Ho appreso con sollievo della liberazione delle Religiose e delle altre persone rapite con loro ad Haiti la scorsa settimana. Chiedo che siano messi in libertà quanti sono ancora sequestrati e che finisca ogni forma di violenza; tutti offrano il proprio contributo per lo sviluppo pacifico del Paese, per il quale occorre un rinnovato sostegno della Comunità internazionale.

Esprimo la mia vicinanza alla comunità della chiesa di Santa Maria a Istanbul, che durante la Messa ha subito un attacco armato che ha provocato un morto e diversi feriti.

Si celebra oggi la Giornata mondiale dei malati di lebbra. Incoraggio quanti sono impegnati nel soccorso e nel reinserimento sociale di persone colpite da questa malattia che, pur essendo in regresso, è ancora tra le più temute e colpisce i più poveri ed emarginati.

Saluto tutti voi che siete venuti da Roma, dall’Italia e da tante parti del mondo. In particolare gli alunni dell’Istituto “Puente Ajuda”, di Olivenza (Spagna), e quelli dell’Istituto “Sir Michelangelo Refalo” di Gozo.

Mi rivolgo ora a voi, ragazzi e ragazze dell’Azione Cattolica, delle parrocchie e delle scuole cattoliche di Roma. Siete venuti al termine della “Carovana della Pace”, durante la quale avete riflettuto sulla chiamata ad essere custodi del creato, dono di Dio. Grazie per la vostra presenza! E grazie per il vostro impegno di costruire una società migliore. Adesso ascoltiamo il messaggio che questi vostri amici, qui accanto a me, ci leggeranno.

[lettura del messaggio]

Auguro a tutti una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Avete visto che i giovani, i bambini dell’Azione Cattolica sono bravi! Coraggio! Buon pranzo e arrivederci!

Ai Cresimandi dell'Arcidiocesi di Bari-Bitonto (27 gennaio 2024)

Sab, 27/01/2024 - 10:15

Cari ragazzi, benvenuti!

Saluto il vostro Vescovo, Mons. Giuseppe Satriano, i genitori, i familiari, i catechisti e tutti voi, che avete riempito di gioia questa grande sala, e anche oltre la sala! Grazie!

Vi preparate a ricevere il Sacramento della Cresima, che si chiama anche Confermazione, perché conferma il dono e gli impegni del Battesimo. E allora vi faccio subito una domanda: chi di voi conosce la data del suo Battesimo? Pochi eh? Pochi… Chi se la ricorda? Vediamo… non solo i ragazzi, ma anche i genitori e i catechisti, perché magari se la sono dimenticata pure loro! Alzi la mano chi conosce la data del suo Battesimo… Sono pochi! Ma andiamo avanti tranquilli. … E dopo, chi non se la ricorda, o proprio non la sa, si prenda l’impegno di cercarla, la chieda ai genitori, ai padrini: “quale è stato il giorno del mio battesimo?”, e non dimenticarla mai: è come un compleanno, una cosa molto bella. Perché la data del battesimo va festeggiata ogni anno come un secondo compleanno. Fatevi fare anche la torta con le candeline: una torta in più – mica male!

Ve lo dico, però, non per scherzo, ma perché la data del nostro Battesimo è davvero una data importantissima! Infatti quel giorno siamo nati alla vita cristiana, alla vita in Gesù, che dura per sempre, che è una vita eterna, per sempre! Poi siamo entrati nella grande famiglia della Chiesa, e lo Spirito Santo è venuto ad abitare in noi e non ci abbandona più; e infine abbiamo ricevuto l’eredità più grande che ci sia: il Paradiso!

Pensate che dono immenso è il Battesimo! E con la Cresima cosa succede? Voi che vi state preparando, cosa succede con la Cresima? Succede che tutto questo viene confermato, cioè reso più saldo, più forte. Da chi? Prima di tutto dallo Spirito Santo, che ci rinnova con i suoi doni; poi dalla Chiesa, che ci affida il compito di annunciare Gesù e il suo Vangelo; e infine da noi stessi, che accettiamo questa missione come un impegno personale, da protagonisti e non da spettatori.

A questo proposito, voglio ricordarvi l’esempio di un ragazzo come voi, un tipo davvero speciale: si chiamava Carlo, forse avete sentito parlare di lui, Carlo Acutis. Lo conoscete. È vissuto a Milano. Purtroppo è morto molto giovane, nel 2006, a soli 15 anni, ma nella sua vita ha fatto in pochi anni moltissime cose belle. Soprattutto era appassionatissimo di Gesù; e poiché era molto bravo a muoversi in internet, l’ha utilizzato a servizio del Vangelo, diffondendo l’amore per la preghiera, la testimonianza della fede e la carità verso gli altri.

Tre cose importanti: preghiera, testimonianza e carità. Avete capito? Preghiera, testimonianza e carità. Diciamolo insieme: “preghiera, testimonianza e carità”. Non ho sentito… “Preghiera, testimonianza e carità”. Adesso ho sentito, va bene. Queste cose, Carlo Acutis le ha vissute con tanto impegno: stava molto tempo con Gesù, specialmente nella Messa, a cui partecipava ogni giorno, e pregava davanti al Tabernacolo, per poi annunciare a tutti, con le parole e con gesti d’amore, che Dio ci ama e ci aspetta sempre. Sentite questo: “Dio ci ama e ci aspetta sempre”. Avete capito? Diciamolo insieme: “Dio ci ama e ci aspetta sempre”. Non ho sentito… [ripetono] “Dio ci ama e ci aspetta sempre”. Bravi!

Allora, ragazzi e ragazze, mentre si avvicina il giorno della vostra Cresima, vi propongo di fare così anche voi. Andate da Gesù, incontratelo, e poi dite a tutti che è bello stare con Gesù, perché ci ama e ci aspetta sempre! Cosa fa Gesù? [ripetono] “Ci ama e ci aspetta sempre”. Avete imparato, va bene. Anzi, diciamolo sempre, questo che abbiamo detto. Bravi! Continuate così, gridate a tutti questo messaggio: non solo con le parole, ma soprattutto con gesti d’amore: aiutando gli altri, specialmente chi ha più bisogno. E qual era il messaggio? [ripetono] “Gesù ci ama e ci aspetta sempre”. Siete intelligenti e avete imparato bene! Grazie.

Vi auguro buon cammino, insieme ai vostri catechisti e ai vostri genitori e familiari. Siate testimoni di quanto è bello stare con Gesù e di quanto Lui ci ama. Vi benedico tutti di cuore. E per favore, pregate per me. E qual era il messaggio? [ripetono] “Gesù ci ama e ci aspetta sempre”. Bravi!

Adesso vi darò la benedizione, ma tutti insieme, prima, preghiamo la Madonna perché ci aiuti a incontrare Gesù. Tutti insieme: Ave o Maria, …

[Benedizione]

Ai membri dell'Associazione "Nolite timere" (27 gennaio 2024)

Sab, 27/01/2024 - 09:45

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Saluto voi tutti che da Giugliano e da altre località siete giunti di buon mattino in Vaticano per questo incontro. Sono venuto a sapere che c’è stato un incidente e che ancora devono arrivare due bus: salutateli da parte mia. Vi do il benvenuto nel venticinquesimo anniversario di fondazione della vostra Associazione, nata a beneficio dei bambini della Cité des Jeunes Nazareth a Mbare, in Ruanda, per iniziativa di S.E. Monsignor Salvatore Pennacchio – ne fai di cose tu! –, allora Nunzio Apostolico in quel Paese, e del compianto Parroco don Tommaso Cuciniello. Fu San Giovanni Paolo II a patrocinare questa iniziativa, a favore dei numerosi orfani provocati dal terribile genocidio che si scatenò in Ruanda nel 1994. Ah quel genocidio! Era terribile, terribile. Non bisogna dimenticarlo mai, per non ricadere.

Il vostro slogan dice: «Doniamo la speranza di ricominciare!». Ricominciare. È molto bello, ed è bello che l’abbiate vissuto in modo concreto, accogliendo alla Cité centinaia di bambini e, con l’adozione a distanza, provvedendo i mezzi per il loro sostentamento e per la loro formazione scolastica e religiosa. In proposito, un grazie va anche alla Congregazione delle Suore Bizeramariya e ai Sacerdoti della Diocesi di Kabgayi, al cui Vescovo rivolgo il mio saluto.

Nello stemma della Cité è raffigurato un paniere ruandese, simbolo di solidarietà e di condivisione. E questo ci ricorda, in un mondo in cui sembrano moltiplicarsi sempre più muri e divisioni tra le persone e tra i popoli, che la carità non ha barriere, come dimostra la vostra storia. Attraverso l’apporto di tante persone, membri, volontari e benefattori, infatti, da un quarto di secolo voi lavorate insieme per i ragazzi, con spirito aperto e con amore incondizionato, uniti dal comune desiderio di ridonare loro il sorriso e una speranza per il futuro. Perché – ricordiamolo – la guerra e le armi tolgono il sorriso e l’avvenire ai bambini, e questo è tragico. È bello invece che voi vi proponiate, nella solidarietà, di creare occasioni di amicizia, dando vita a rapporti che poi durano nel tempo. Si crea così una rete di affetti che si estende oltre le circostanze del momento, travalicando le differenze di età, nazionalità, cultura e condizione sociale.

Questo ci mostra che essere “volontari” è molto più che prestare un servizio o dare un contributo economico: «è una scelta che ci rende […] aperti alle necessità dell’altro […] – il volontario è aperto alle necessità dell’altro –, artigiani di misericordia: con le mani, con gli occhi, con gli orecchi attenti, con la vicinanza» (Videomessaggio con l’intenzione di preghiera per il mese di dicembre 2022).

Cari fratelli e sorelle, grazie per quello che fate, grazie! Alla Madonna, Regina della Pace, venerata nella Chiesa dell’Annunziata a Giugliano, e a San Giuliano Martire, Patrono della città, che oggi festeggiate, affidiamo assieme il vostro lavoro. Preghiamo che cessino nel mondo violenze e conflitti, a causa dei quali ancora, purtroppo, troppi bambini continuano a soffrire, ad essere sfruttati e a morire, e facciamoci eco, con forza, delle parole di San Paolo VI: «Mai più la guerra!» (Discorso alle Nazioni Unite, 4 ottobre 1965). Mai più!

Vi benedico, assieme ai vostri cari e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie.

Ai partecipanti alla Conferenza degli Ambasciatori del Sovrano Militare Ordine di Malta (27 gennaio 2024)

Sab, 27/01/2024 - 09:15

Gran Maestro,
Eminenze, Eccellenze
,

cari Membri del Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta, vi do il benvenuto e vi saluto cordialmente! Da secoli il vostro Ordine serve Dio e la Chiesa adempiendo le finalità per cui siete stati fondati dal Beato Gerardo, cioè «promuovere la gloria di Dio e la santificazione dei membri attraverso la tuitio fidei e l’obsequium pauperum», come recita la vostra Carta Costituzionale (art. 2 §1). Tutela della fede e ossequio dei poveri: insieme.

Circa l’ossequio dei poveri, avete un modo molto significativo di chiamare i vostri assistiti: “i signori malati”. Date loro la signoria, e questo è molto bello. Servendo loro, servite Gesù. Poco prima della passione, anch’Egli, come narrano i Vangeli (cfr Mt 26,6-13; Gv 12,1-8), ha ricevuto da Maria di Betania un atto di “ossequio”: un’unzione con olio profumato di vero nardo, assai prezioso. Cristo accolse molto bene il gesto e, alle proteste indignate di chi lo riteneva uno spreco, rivelò il senso di quell’atto di amore, compiuto in vista della sua sepoltura. Come Maria a Betania ha mostrato il suo obsequium nei confronti del Signore, che da ricco si è fatto povero per noi (cfr 2 Cor 8,9), così noi, suoi discepoli, siamo chiamati a continuare a ossequiarlo nei poveri, che – disse il Maestro in quella occasione – abbiamo sempre con noi (cfr Gv 12,8). E siamo tenuti a farlo con amore e umiltà, senza retorica e ostentazione.

Dopo il gesto di Maria, Gesù aggiunse: «In verità io vi dico: dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto» (Mt 26,13). Cristo ha così congiunto la predicazione del Vangelo e l’elogio del servizio ai poveri. Infatti la tuitio fidei e l’obsequium pauperum non si possono separare. E quando ci avviciniamo agli ultimi, agli ammalati, agli afflitti, ricordiamo che quanto facciamo è un segno della compassione e della tenerezza di Gesù. In tal senso la vostra opera non è solo umanitaria, come quella meritoria di tante altre istituzioni: è un’azione religiosa, che dà gloria a Dio nel servire i più deboli e testimonia la predilezione del Signore per loro.

In questa prospettiva va considerata anche l’attività diplomatica che svolgete in tante parti del mondo, in ben 113 Paesi e in 37 missioni presso le Organizzazioni internazionali. È sempre l’attività di un Ordine religioso: se non avesse lo scopo di testimoniare l’amore di Dio per i bisognosi, non avrebbe senso che sia svolta da un Ordine religioso. Infatti, non esistono due diverse realtà, quella del Sovrano Militare Ordine di Malta, soggetto internazionale deputato alle opere caritative ed assistenziali, e quella dell’Istituto religioso; non si può distinguere nettamente tra Gran Maestro quale Sovrano dell’Ordine, da cui derivano le prerogative sovrane e i titoli, e Gran Maestro quale Superiore religioso (cfr Carta Costituzionale, art. 12).

Il vostro Ordine, guidato dal proprio Moderatore Supremo, per peculiari circostanze storiche ha acquisito anche uno status internazionale e così sono sorte le prime “ambascerie”. Perciò all’ufficio di Moderatore Supremo del Gran Maestro, oltre ai doveri e ai diritti consueti, se ne sono aggiunti altri in ambito internazionale. Ma, come ricorda sempre la Carta Costituzionale (cfr art. 4), la sovranità è funzionale alla tuitio fidei e all’obsequium pauperum. Nasce da questo. Lo precisa bene la Sentenza del Tribunale cardinalizio, appositamente costituito da Papa Pio XII, affermando che il vostro è «un Ordine religioso, approvato dalla Santa Sede», e che «la qualità di Ordine sovrano della Istituzione è funzionale, ossia diretta ad assicurare il raggiungimento dei fini dell’Ordine stesso e il suo sviluppo nel mondo», per cui «dipende dalla Santa Sede» (AAS 45, 1953, 766-767).

In tal modo si delinea la rilevanza dell’Ordine in ambito internazionale, come strumento di azione apostolica, con la sua subordinazione, in quanto Ordine religioso, alla Santa Sede, e la sua obbedienza al Papa, come supremo Superiore di tutti gli Istituti religiosi (cfr CIC, 590). Perciò è importante che tra il Rappresentante diplomatico dell’Ordine e il Legato Pontificio del luogo si stabilisca un rapporto di proficua collaborazione, in un’azione congiunta per il bene della Chiesa e della società; così pure, il legame dell’Ordine con il Papa non è una limitazione della sua libertà, ma una custodia, che si esprime nella sollecitudine di Pietro per procurarne il maggior bene, come avvenuto più di una volta anche con interventi diretti in momenti di difficoltà.

La dipendenza dell’Ordine di Malta dalla Santa Sede non diminuisce dunque l’importanza delle sue rappresentanze diplomatiche, anzi ne fa cogliere ancora più pienamente il senso, in quanto canali dell’attività apostolico-caritativa dell’Ordine, aperti e generosi specialmente là, dove c’è più bisogno. Mi piace molto la terminologia usata da alcuni di voi, che considerano la vostra una “diplomazia umanitaria”. Il Rappresentante diplomatico è portatore del carisma dell’Ordine, per cui si sente chiamato a svolgere il suo incarico come una missione ecclesiale. Questa natura peculiare della vostra diplomazia, lungi dal diminuirne l’importanza, è una testimonianza preziosa, un segno eloquente anche per le altre ambasciate, affinché pure la loro attività sia volta al bene concreto dei popoli e tenga in alta considerazione i più deboli.

Carissimi, vi sono molto grato per la missione che svolgete e invoco su di voi la protezione della Madonna del Fileremo, a cui l’Ordine è devoto. Vi benedico e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie!

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