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Quel dono che sono i giovani per la Chiesa

Mer, 27/03/2024 - 09:29

Quando quest’estate tornammo da Lisbona insieme a Emanuela scrivemmo di esserci portati a casa la consapevolezza che papa Francesco stesse gridando al mondo che questo era il tempo per abbandonare il giovanilismo di facciata. Quel youth washing oggi ormai molto praticato in tanti contesti civili ed ecclesiali. A quella convinzione, leggendo le parole del Messaggio che Francesco ci ha rivolto lunedì nel quinto anniversario dell’Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit, si è aggiunta la certezza di essere profondamente guardati e intensamente abbracciati.

Da giovane mi sento guardato con lo sguardo della cura, perché papa Francesco non si stanca di ricordarmi ciò che io tendo a dimenticare, che la mia vita al Signore va bene così come è: «Lui, che ha dato la sua vita per te, non aspetta, per amarti, la tua perfezione».
Da giovane mi sento avvolto da un abbraccio che sostiene, perché al posto di quelle dichiarazioni di speranza verso le giovani generazioni che finiscono sempre per rivelarsi una fiducia controllata o di facciata, nelle parole del papa trovo l’incoraggiamento costante a riconoscere il valore che noi giovani sappiamo portare al cammino di tutta la Chiesa.

È così che, leggendo le parole di papa Francesco, mi sono trovato a ripensare alle riflessioni sullo “scartare” di uno scrittore, Guido Marangoni. Perché se è vero che da papa Francesco abbiamo imparato ad accorgerci della logica dello scarto che drammaticamente connota il nostro tempo, mi sembra ancor più vero che è dal papa che stiamo imparando a “scartare” e cioè di aprire la vita delle persone. Perché, come scrive Marangoni, «oltre a rifiutare o escludere», scartare il dono della vita dei fratelli e delle sorelle è l’unico modo «per guardarci dentro» e scoprire la sete di Amore che abita i nostri cuori. Quando è prezioso imparare, come fa papa Francesco, a «scartare le persone per scoprirle, per guardarle dentro, invece di scartare per escluderle» (1).

Celebrare questo quinto anniversario della Christus vivit con un messaggio a noi giovani, allora, non è tanto ricordare con nostalgia un tempo entusiasmante per la Chiesa ma è un invito a fare memoria del dono che sono i giovani per la Chiesa. Significa ricordare per alimentare le speranze che hanno abitato i giovani venuti a Roma a marzo del 2018 per la riunione Pre-Sinodale. Ancora mi emoziono ricordando l’entusiasmo di Luisa, Adelaide e Gioele che in quei giorni portavano i sogni e le speranze, i dubbi e le preoccupazioni dei giovani italiani, nel dialogo con i giovani di tutto il mondo, all’attenzione della Chiesa universale. Quei sogni, quelle speranze, quei dubbi e quelle preoccupazioni sono domande di vita anche dei giovani di oggi e devono trovare un luogo libero e accogliente nei nostri cammini di fede.

Ricordare il quinto anniversario della Christus vivit, ancora,significa pensare con stupore al ricordo dei giovani italiani che Per mille strade nell’agosto di quell’anno vennero a Roma per incontrarsi, porre domande di vita al Santo Padre e pregare per l’Assemblea sinodale dei vescovi che sarebbe iniziata quell’autunno. Sono le stesse domande a cui papa Francesco a Lisbona ha risposto incoraggiandoci a non avere paura e ribadendo che di noi «la Chiesa e il mondo hanno bisogno come la terra della pioggia».

Ricordare l’anniversario della Christus vivit, infine, significa rievocare gli appuntamenti informali e conviviali vissuti il giovedì sera con i padri sinodali in via della Conciliazione nell’ottobre 2018, quando molti di loro scelsero di proseguire ad ascoltare e dialogare con i giovani per continuare a discernere la volontà del Signore. È quello stesso processo che stiamo continuando a vivere con il cammino sinodale e con il Sinodo universale sulla sinodalità.

Celebrare l’anniversario della Christus vivit sfida la Chiesa a saper accompagnare noi giovani, a saper comprendere e abitare i nostri grandi opposti che ci vedono essere, contemporaneamente, entusiasti sognatori e pessimisti frustrati, pronti a impegnarci con gratuità e dedizione e abitati dal senso di inadeguatezza e dallo scoraggiamento.

Perché «Cristo vive e ci vuole vivi» e la nostra vita, così diversa dalle generazioni che ci hanno preceduto, è preziosa, è «chiasso buono», «motore pulito e agile […] modo originale di vivere e annunciare la gioia di Gesù Risorto» di cui la Chiesa oggi ha bisogno per esplorare con creatività vie nuove rimanendo fedele alle sue radici.

(1) G. Marangoni, Universi di-versi, Sperling & Kupfer, pp. 21-22.

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Pasqua 2024: si alzino le bandiere bianche!

Mar, 26/03/2024 - 07:00

Nel drammatico contesto internazionale, segnato da terrorismo e guerre fratricide, l’Azione Cattolica Italiana, le ACLI, l’AGESCI, la Comunità Papa Giovanni XXIII, il Movimento dei Focolari Italia e Pax Christi dedicano, comunitariamente, alla Pace gli auguri per la Santa Pasqua 2024.

La pace è l’urgenza del Risorto. La pace è la nostra priorità, oggi che la fraternità stessa è messa in discussione, come ha ricordato il card. Matteo Zuppi al Consiglio permanente della CEI lo scorso 18 marzo. Non possiamo accettare che solo la guerra sia la soluzione dei conflitti.
Ripudiarla significa arrestarne la progressione. A cominciare dall’aumento sconsiderato della produzione di armi, a discapito di vere politiche di sviluppo. Osare la pace significa scegliere politiche di disarmo, nucleare e no. Osare la pace significa difendere la Legge 185/90 che oggi rischia di essere svuotata.

Come Papa Francesco siamo consapevoli che “per accogliere Dio e la sua pace non si può stare fermi, non si può stare comodi aspettando che le cose migliorino. Bisogna alzarsi, cogliere le occasioni di grazia, andare, rischiare. Bisogna rischiare”.
Occorre ribadire ancora una volta l’immoralità di fabbricare e detenere armi nucleari e perciò imploriamo l’adesione dell’Italia al Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari.

La via della pace passa per il dialogo politico e sociale, non per le armi. Costruiamo Pace, scegliamo politiche di disarmo. Italia, ripensaci!

Auguri di Pace!

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Il multilateralismo: una bussola per l’era globale

Sab, 23/03/2024 - 07:00

«Dire che non bisogna aspettarsi nulla sarebbe autolesionistico, perché significherebbe esporre tutta l’umanità, specialmente i più poveri, ai peggiori impatti del cambiamento climatico. Se abbiamo fiducia nella capacità dell’essere umano di trascendere i suoi piccoli interessi e di pensare in grande, non possiamo rinunciare a sognare che la COP28 porti a una decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente. Questa Conferenza può essere un punto di svolta» (LD, 53-54).

Un’efficace lezione di coraggio profetico e saggezza politica

Rileggere Laudate Deum dopo Dubai offre un’efficace lezione di coraggio profetico e saggezza politica. Quando papa Francesco l’ha pubblicata, settanta giorni prima della conclusione della Conferenza Onu sul clima (Cop28), pochi nutrivano la speranza che qualcosa di buono venisse dalla “Cop dei petrolieri”. Non solo, il vertice si sarebbe svolto negli Emirati, una dei primi dieci produttori mondiali di greggio. La sua presidenza era stata affidata ad Ahmed Al Jaber, amministratore delegato della compagnia petrolifera nazionale Adnoc. Le premesse, dunque, non potevano essere peggiori. Eppure la svolta – quanto meno il primo passo in tale direzione – c’è stata. Il vertice si è concluso con l’approvazione di un documento che chiede alle parti di «avviare la transizione verso l’allontanamento dei combustibili fossili nei propri sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando le azioni in questo decennio»1.
Un giro di parole un po’ arzigogolato per dribblare il termine “eliminazione graduale” o “phase out”, in inglese, su cui si era incagliato il negoziato a causa dell’opposizione delle petro-potenze. Il mandato politico, comunque, è chiaro. Oltretutto è stato conferito nel primo “bilancio globale” in cui, come disposto dall’Accordo di Parigi, i paesi firmatari hanno fatto il punto delle politiche climatiche finora adottate e tracciato la strada per il prossimo futuro.
Un percorso che conduce alla fine dell’era fossile. Il testo, oltretutto, fissa un orizzonte temporale stringente per l’avvio della transizione: questa decade. E sigla l’impegno a triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030. Il summit si è aperto, infine, con l’entrata in funzione del fondo per compensare i paesi poveri delle perdite ambientali, approvato alla Cop27 di Sharm el-Sheikh dopo una durissima battaglia. A Dubai la decisione è diventata operativa con le prime donazioni. Poche in realtà. Si parla di circa 700 milioni di dollari, di cui 108 versati dall’Italia, la più generosa insieme alla Germania. Briciole, comunque, rispetto alle reali necessità. L’anno scorso gli impatti del clima sono costati ai paesi vulnerabili 109 miliardi di dollari.

L’evidente sproporzione tra necessità reali e soluzioni

L’evidente sproporzione tra necessità reali e soluzioni aiuta a comprendere le differenti posizioni sui risultati del summit. Per il presidente Al Jaber l’accordo è stato «storico». Il presidente Usa Joe Biden ha parlato di «pietra miliare». Per la delegata di Samoa, Anne Rasmussen, si è trattato di «una litania di scappatoie». A preoccupare i paesi insulari è, in particolare, l’assenza di approfondimenti sulla mitigazione degli effetti causati dal cambiamento climatico e l’idea che la transizione verso un sistema basato sulla produzione di energia pulita abbia prevalso sulla rottamazione totale e definitiva dei combustibili fossili (anche nell’industria). A loro dire, ancora, è ambiguo il riferimento all’uso dei “carburanti transitori”, che spesso si riferiscono al gas, e alle tecnologie, come quelle adottate per cattura e stoccaggio del carbonio, che in assenza di linee guida ben precise “potrebbero minare gli sforzi” finora compiuti per contenere l’emergenza climatica.

Il primo passo per l’abbandono delle fonti fossili

Harjeet Singh, ambientalista indiano tra i più accreditati, esponente del Climate action network e consulente delle Nazioni Unite, lo considera una “bussola”, il cui nord è l’uscita dai combustibili fossili. «Finalmente abbiamo uno strumento che indica ai Paesi la giusta direzione. Troppo a lungo abbiamo eluso la questione idrocarburi. E per questo non abbiamo risolto la crisi climatica [spiega]. La strada è aperta. Si tratta di percorrerla»2 . Non sarà facile. Il primo passo per l’abbandono delle fonti fossili sarebbe lo stop dei nuovi progetti e lo spostamento dei capitali su impianti per la produzione di energie rinnovabili. Purtroppo avviene il contrario, proprio a partire da chi, a parole, è maggiormente impegnato nella lotta contro i gas serra.

Il riscaldamento colpisce tutti. Non con la stessa intensità

Il rapporto di settembre del centro di monitoraggio Oil change svela il paradosso. Venti Stati hanno piani di espansione dell’industria fossile che, in meno di trent’anni, dovrebbero causare oltre 1200 gigatonnellate di CO2. Il 51 per cento è nelle mani di cinque potenti economie del Nord del pianeta che a Dubai hanno sostenuto con forza lo stop: Stati Uniti, Canada, Australia, Norvegia e Gran Bretagna. A fare da apripista nella riconversione energetica, invece, sono state tredici nazioni “piccole”, con l’iniziativa – lanciata a Glasgow, diventata effettiva a Sharm el-Sheikh e proseguita a Dubai – del Trattato di non proliferazione delle fonti fossili.
Alla Cop28, in particolare, l’idea è stata sottoscritta dalla Colombia, primo produttore latino-americano di carbone e fortemente dipendente dagli idrocarburi. «Questo dimostra che molti Paesi “fossili” sarebbero disposti a fare la transizione se solo fossero aiutati»3 . L’affermazione di Singh tocca un punto nevralgico: la finanza climatica, perlopiù ignorata al vertice. Con questo termine si intendono le risorse mobilitate per aiutare i paesi poveri a ridurre i gas serra e a far fronte agli impatti dell’aumento delle temperature. Il riscaldamento colpisce tutti i paesi. Non, però, con la stessa intensità. Soprattutto, i mezzi per farvi fronte sono enormemente impari. Il riscaldamento globale, poi, acuisce ulteriormente le diseguaglianze. L’urgenza di arginare le catastrofi ambientali drena i già pochi capitali interni a disposizione e impedisce di utilizzarli per sostenere l’addio agli idrocarburi.
Uragani, inondazioni, siccità e altri fenomeni meteorologici estremi costringono gli Stati più vulnerabili a indebitarsi, fagocitando ulteriormente i fondi per la decarbonizzazione. Le mappe degli Stati più colpiti da fenomeni meteorologici estremi e di quelli con maggiori passivi sono perlopiù sovrapponibili. Per questo, senza una riforma della finanza mondiale e un impegno economico reale delle nazioni più ricche, non è possibile arginare l’emergenza ambientale. L’Alleanza dei piccoli Stati insulari sostiene che oltre la metà del debito pubblico delle venti nazioni più sensibili al riscaldamento è stato contratto per far fronte ai danni causati dal clima.

Non si risolve la crisi climatica senza risolvere il problema del debito nel Sud del mondo

Secondo un’indagine del Fondo monetario internazionale sugli undici disastri naturali più gravi avvenuti tra il 1992 e il 2016, il passivo delle nazioni interessate è lievitato di sette punti percentuali nei tre anni successivi. Risultati confermati da uno studio della Jubilee debt campaign. Dei 132 paesi del Sud globale maggiormente indebitati, buona parte è situato nella fascia tropicale, particolarmente esposta agli effetti del clima. «Di fronte a una catastrofe, le economie povere sono costrette a chiedere dei prestiti per farvi fronte.
Questo aumenta il livello del passivo e riduce gli investimenti nazionali per prevenire i disastri e decarbonizzare. Si crea così un circolo vizioso. Per questo non è possibile arginare la crisi climatica senza risolvere il problema del debito nel Sud del mondo dove tre miliardi di persone vivono in nazioni che spendono più per ripagare gli interessi di quanto investono nell’istruzione», sottolinea Richard Kozul-Wright della Conferenza Onu sul commercio e lo sviluppo (Unctad).
La chiave per uscire dal labirinto è appunto la finanza climatica. Già l’Accordo di Parigi impegnava il Nord del pianeta a spendersi e spendere per contribuire all’allineamento del Sud geopolitico agli obiettivi concordati. Da allora, però, poco è stato fatto. E Dubai non ha invertito la rotta. Nel documento conclusivo viene reiterata «la necessità di risorse pubbliche e basate su erogazioni» in favore dei paesi poveri. Non prestiti, dunque, come di fatto accade nella maggior parte dei casi, anche se è impossibile avere dati esatti vista l’assenza di criteri uniformi. Un altro testo chiave approvato a Dubai, il cosiddetto “Quadro per il nuovo obiettivo globale sull’adattamento”, riconosce l’incremento del divario tra le condizioni reali e i fondi erogati, con un impegno ad incrementare in modo significativo. E si sancisce l’importanza di realizzare una «giusta transizione».

Ancora una volta papa Francesco ha colto nel segno

Non si va, però, molto oltre le dichiarazioni di principio. I leader hanno scelto di scaricare la patata bollente sul prossimo summit, in programma dall’11 al 22 novembre 2024 a Baku, in Azerbaijan. Se la “battaglia del petrolio” è stato il pilastro della conferenza di Dubai, al centro della discussione – o dello scontro – della Cop29 sarà la somma di aiuti da stanziare dopo il 2025, il sostituto, cioè, dei famosi 100 miliardi di dollari l’anno, peraltro forse mai raggiunti. I paesi poveri chiedono che la cifra sia moltiplicata almeno per cento. La sfida, dunque, è ardua. In questo contesto, allora, forse il maggior risultato della Cop29 non è quanto è stato scritto, bensì l’aver rilanciato il processo multilaterale dopo che due anni di tensioni internazionali avevano ridotto al minimo le aspettative.
Ancora una volta papa Francesco ha colto nel segno. Nel messaggio al vertice, a cui è mancato all’ultimo per ragioni di salute, letto dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, ha chiesto: «Signore e Signori, mi permetto di rivolgermi a voi, in nome della casa comune che abitiamo, come a fratelli e sorelle, per porci l’interrogativo: qual è la via d’uscita? Quella che state percorrendo in questi giorni: la via dell’insieme, il multilateralismo»4 . Una parola, quest’ultima, ritenuta da tanti obsoleta che, proprio a Dubai, ha dimostrato di essere ancora l’unica bussola per gestire l’era globale. Il multilateralismo è difficile, deludente, drammaticamente imperfetto. Come gli accordi della Cop28. L’alternativa, però, ce l’abbiamo sotto gli occhi, da Gaza a Kiev.

Note

1 Il testo del documento finale Global Stocktake è disponibile su https://bit.ly/49wNpvF.
2 Mia intervista pubblicata su «Avvenire» del 15 dicembre 2023.
3 Ibidem.
4 Il testo integrale è disponibile su https://bit.ly/42UudFK.

Articolo pubblicato su Dialoghi (n.1-2024), il trimestrale culturale dell’Ac

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Cei: pace e fraternità, innanzitutto

Gio, 21/03/2024 - 10:10

La “questione” pace (da invocare, da costruire, da promuovere) è il tema che più di ogni altro (Europa, sinodo e rilevanza della Chiesa, giovani e anziani) ha caratterizzato i lavori, appena conclusi, della sessione primaverile del Consiglio episcopale permanente dei vescovi italiani, sotto la guida del cardinale presidente Matteo Zuppi, affiancato dal segretario generale, il vescovo Giuseppe Baturi. Per i presuli, di fronte a una cultura che sembra essere assuefatta alla guerra, a un aumento incontrollato delle armi e a un sistema economico che beneficia della corsa agli armamenti, occorre riprendere il dialogo tra Chiesa e mondo attraverso cammini educativi che offrano alternative alle logiche ora dominanti.

Per capire non serve aspettare l’irreparabile

«Dobbiamo aspettare l’irreparabile per capire e scegliere?». È la domanda cruciale e inquieta che pongono i vescovi italiani, constatando anche «le conseguenze di “non scelte”, di rimandi colpevoli, di occasioni perdute. «È la fraternità stessa a essere messa in dubbio – sottolinea Zuppi nella sua Prolusione -; la possibilità di convivere senza dover competere o addirittura eliminare l’altro per poter vivere».

Di fronte a un tempo di conflitti, di divisioni, di sentimenti nazionalisti, di odi, di contrapposizioni, il servizio della Chiesa per l’unità brilla come una luce di speranza, osserva il presidente della Cei. L’esortazione è a impegnarsi ciascuno, a livello personale e di comunità, per «essere artigiani di pace, tessitori di unione in ogni contesto, pacifici nelle parole e nei comportamenti ammoniti anche a dire pazzo al prossimo, per imparare ad amare il nemico e renderlo di nuovo quello che è: fratello». E aggiunge: che la violazione dei diritti elementari delle persone non si perda «nell’indifferenza o nell’abitudine»

Papa Francesco, tutt’altro che ingenuo

Mentre «viviamo un lunghissimo Venerdì Santo», basti pensare a quel che accade in Ucraina e a Gaza, i vescovi annunciano che la durante prossima Assemblea generale sarà vissuta una giornata di preghiera, digiuno e solidarietà, e auspicano che, per esempio, si organizzi una diffusa accoglienza per le vacanze estive ai bambini orfani o vittime di quella catastrofe che è la guerra. Poi rimarcano che «le parole del Santo Padre sulla pace sono tutt’altro che ingenuità. È sofferta e drammatica condivisione di un dolore che non potremo mai misurare». In Francesco, l’empatia e la pietà «prevalgono su tutto, su ogni valutazione pur indispensabile relativa ad aggressori e aggrediti, a ragioni e torti. La vita viene prima di tutto. La Chiesa è madre e vive la guerra come una madre per la quale il valore della vita è superiore a ragionamenti o schieramenti lontani da questo».

In Europa trionfi il senso di responsabilità sovranazionale

I vescovi italiani guardano naturalmente anche al voto europeo (dal 6 al 9 giugno prossimo). Invitano a condividere l’appello dei vescovi europei augurandosi che i deputati si scelgano responsabilmente e che si faccia trionfare il diritto e il senso di responsabilità sovranazionale. In particolare, scrive il cardinale Zuppi: «La storia esige di trovare un quadro nuovo, un paradigma differente, coinvolgendo la comunità internazionale per trovare insieme alle parti in causa una pace giusta e sicura. Proprio su questo versante gli Stati e i popoli europei, le stesse istituzioni dell’Unione europea, devono riscoprire la loro vocazione originaria, improntando le relazioni internazionali alla cooperazione attraverso – qui cita Schuman nella Dichiarazione del 9 maggio 1950 – realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto».

Cammino sinodale, tra resistenze e voglia di coinvolgimento

A partire dalla vicenda biblica di Giuseppe e i suoi fratelli – non priva di ingenuità e astuzie, sogni e delusioni, innocenza e violenza – il presidente della Cei esorta, in particolare nel testo della sua prolusione – a uscire da un diffuso individualismo. «C’è bisogno del noi, della comunità, di luoghi di relazione vera tra le persone, di quell’alleanza che diventa amicizia», rimarca. Poi la prolusione pone l’accento sul cammino sinodale alla luce della lettura dei materiali ricevuti dalle diocesi italiane che, osserva Zuppi, ha rilevato entusiasmo, energia, pazienza, disponibilità, ascolto, ma anche le difficoltà, le disillusioni, la tentazione di accontentarsi di definire, le paure, l’indifferenza, le resistenze ad avviare tale processo. «Se da un lato – spiega – si percepisce una crisi della partecipazione alla vita della comunità, dall’altro si desidera un luogo familiare dove potersi coinvolgere. Nella prima fase del Cammino abbiamo imparato che, quando si mettono in ascolto, i cristiani diventano ospitali».

La sinodalità è fraternità

Nelle parole dei vescovi, dalla Prolusione sino al Comunicato stampa finale – c’è l’anelito a una Chiesa che si apre al dialogo anziché una Chiesa che si chiude sentendosi assediata. «Si percepisce una debolezza che sembra investire questioni come il posto dei poveri all’interno della Chiesa e la valorizzazione del loro apporto, il dialogo con la cultura, i rapporti ecumenici e interreligiosi, l’interlocuzione con i mondi dell’economia, delle professioni, della politica, ma anche l’apporto della vita consacrata», riferiscono. E poi precisano cosa dovrebbe essere sinodalità: deve significare modi e forme concrete di vita comune, semplici, vere, esigenti e umanissime, personali e comunitarie, perché la Chiesa sia comunità, servizio, relazione, amore per la Parola e per i poveri, luogo di pace e di incontro. «La sinodalità – infatti – deve essere accompagnata dalla freschezza della fraternità, vissuta più che interpretata, offerta più che teorizzata, nella vita e non in laboratorio, capace di rivisitare e animare i nostri ambienti. Fraternità non virtuale, simbolica ma reale».

Nella Chiesa si ricomponga un clima di fiducia

Relativamente alla questione che da più parti sembrerebbe emergere su una diminuita rilevanza e consistenza della Chiesa, in particolare il cardinale presidente Zuppi ammette che «il dibattito non ci fa paura». L’importante è che venga fatto nel dialogo, tra tanti cristiani, in maniera popolare come è avvenuto «e non nelle polemiche digitali, sterili, polarizzate, di convenienza». Invita a non guardare nostalgicamente indietro a una presunta età dell’oro: quella prima del Concilio per taluni, dopo il Vaticano II per altri. «Bisogna ricomporre un clima di fiducia e di speranza nella nostra Chiesa, liberarsi da amarezze e renderle impegno, progetto, esperienza”, esorta in conclusione, non dimenticando che è necessario farlo “in comunione piena con il primato di Pietro, da difendere e amare sempre».

Anziani e giovani sono una emergenza

Nel corso dell’intera sessione di lavori del Consiglio permanente, diverse sono state le occasioni in cui i presuli hanno espresso preoccupazione per la tenuta del sistema del Paese, in particolare di quelle aree che ormai da tempo fanno i conti con la crisi economica e sociale, con spopolamento e carenza di servizi. I vescovi italiani, garantiscono massima e costante vigilanza su questo ambito. «Non venga meno un quadro istituzionale che possa favorire uno sviluppo unitario – è l’appello – secondo i principi di solidarietà, sussidiarietà e coesione sociale». La vicinanza alla condizione di anziani, definita una vera “emergenza”, e giovani è totale. Proprio ai giovani sono state dedicate importanti riflessioni, sulla base dei dati della ricerca condotta sull’universo giovanile dall’Istituto Toniolo. Per la terza età, «è necessario continuare a lavorare – società civile, enti ecclesiali e Istituzioni – per concretizzare la riforma delineata con la Legge Delega del marzo 2023 e a non tradire le attese di persone, famiglie e operatori».

Condivisa la bozza del programma della 50ª Settimana sociale

Durante il Consiglio permanente della Cei, come riferito dal comunicato finale dei lavori «è stata condivisa la bozza del programma della 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia», che si svolgerà a Trieste dal 3 al 7 luglio 2024 sul tema: “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”.
«Mentre è già in atto un processo di partecipazione che vede coinvolte le Chiese in Italia e le realtà ecclesiali che danno il loro apporto all’edificazione del “noi comunitario”, sono in fase di definizione i dettagli dell’organizzazione – spiega il comunicato finale -. Come annunciato a gennaio dal segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, è previsto l’intervento di Papa Francesco domenica 7 luglio, a conclusione dell’evento. «I partecipanti non saranno più solo delegati diocesani, né solo rappresentanti di associazioni e movimenti, ma cattolici attivi nella vita sociale del Paese». L’obiettivo è «quello di riflettere sul tema della democrazia per recuperarne il senso e rileggerla alla luce della Dottrina sociale della Chiesa, approfondendo i fondamenti antropologici, le trasformazioni che la partecipazione sta vivendo, le idee e le procedure che possono rigenerarla, a partire da una presenza nella società civile più efficace». Per questo, prosegue il comunicato finale, «ampio spazio sarà riservato ai tavoli di discernimento e di confronto, con una metodologia grazie alla quale possano emergere delle proposte condivise».

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Roma città libera

Mer, 20/03/2024 - 07:00

Giovedì 21 marzo ricorre la XXIX edizione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, promossa da Avviso Pubblico e Libera, cui l’Azione cattolica italiana aderisce e partecipa sin dalla nascita.

Il Presidente nazionale dell’Ac, Giuseppe Notarstefano sarà presente alla manifesta nazionale che si svolgerà a Roma. Replicando la “formula” adottata negli ultimi anni a causa dell’emergenza, Roma sarà la “piazza” principale, ma simultaneamente, in altri luoghi in Italia, Europa, Africa e America Latina, la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie verrà vissuta attraverso la lettura dei nomi delle vittime, saranno ascoltate le testimonianze dei familiari e approfondite le questioni relative alle mafie e alla corruzione, nel segno di una memoria che non vuole essere celebrazioni ma strumento di verità e giustizia. L’obiettivo è un coinvolgimento ampio di tutto il territorio nazionale con collegamenti internazionali: per le istituzioni e per la società civile sarà occasione per lanciare un segnale concreto di impegno comune contro le mafie e la corruzione.

Lo slogan: Roma città libera

“Roma città libera” è uno slogan che evoca il capolavoro del neorealismo “Roma città aperta” di Roberto Rossellini: un’opera d’arte che parla di resistenza e della lotta per la libertà. A ottant’anni dall’occupazione nazi-fascista, oggi Roma deve nuovamente aprirsi e liberarsi. Questo 21 marzo sarà occasione per affrontare le problematiche che oggi rendono la città di Roma e tutta la sua area metropolitana un feudo per la criminalità organizzata di diverso tipo e immersa com’è in una corruzione sistemica. Lo faremo insieme alle migliaia di cittadini e cittadine e alle centinaia di realtà sociali che quotidianamente si battono per vivere in un luogo in cui la cultura del diritto prevalga sulla cultura del privilegio e della sopraffazione.

Perché a Roma: un’incidenza criminale crescente

Lo scenario attuale della Capitale è di per sé molto complesso. Così come nel resto del Lazio, soprattutto per quanto riguarda l’intero litorale laziale. Esiste infatti una tassonomia criminale peculiare che racchiude al suo interno una pluralità di paradigmi molto diversi tra loro. L’incidenza delle organizzazioni mafiose tradizionali è molto forte ed in continua evoluzione. Oltre alla loro presenza, a Roma e nel Lazio, vi è anche quella delle cosiddette mafie autoctone, che sono di origine esclusivamente locale. Queste ultime non devono essere considerate inferiori di importanza rispetto alle mafie tradizionali, in quanto esiste un vero e proprio rapporto paritario, negli affari e nei traffici illeciti.

Commistione tra economia legale e illegale

Sono inoltre presenti organizzazioni criminali non mafiose che adottano comportamenti mafiosi soprattutto nelle risoluzioni delle controversie e nel controllo militare del territorio e sono dedite al narcotraffico. Non meno rilevante infine è la presenza di mafie straniere tra cui quella nigeriana e cinese che si aggiungono alle organizzazioni albanesi di cui si evidenzia negli ultimi anni un notevole salto di qualità nello scenario criminale romano. Il punto in comune che hanno tutte le organizzazioni appena descritte è la loro compresenza nell’economia legale e illegale della Capitale, grazie ad un passaggio da un modello di permeazione parassitario ad uno simbiotico. Il loro modus operandi, unito all’assenza di un’organizzazione criminale dominante, è il fattore chiave che permette a queste associazioni di crescere e potenziarsi, perseguendo il loro obiettivo di inserirsi nel tessuto sociale ed economico della Capitale.

Il programma: corteo, memoria e seminari tematici

Per la manifestazione di Roma (Il programma della Giornata), la Capitale è pronta ad accogliere in un grande abbraccio oltre 700 familiari di vittime innocenti provenienti da tutta Italia, sotto l’alto patronato del presidente della Repubblica e il sostegno del Comune di Roma. La Giornata promossa da Libera dal 2017 è stata infatti riconosciuta dallo Stato e vedrà una grande partecipazione di giovani, associazioni, gruppi, rappresentanti delle istituzioni, del sindacato, del mondo della scuola, della cultura, dello sport.

Giovedì 21 marzo un corteo partirà alle 9 da piazzale Esquilino per arrivare al Circo Massino dove verranno letti i nomi delle 1.081 vittime innocenti delle mafie.
Alla lettura dei nomi, partecipa il presidente nazionale Ac, Giuseppe Notarstefano.

Oggi, mercoledì 20 marzo i familiari provenienti dalla Calabria, Sicilia, Puglia, Campania e dal Nord Italia si ritroveranno alle 15 presso la basilica Santa Maria in Trastevere per l’assemblea nazionale alla presenza di don Luigi Ciotti, presidente di Libera, e del card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana. A seguire, alle 18, veglia ecumenica nella basilica durante la quale saranno letti i nomi delle vittime delle mafie.
Anche quest’anno nell’ambito della Giornata della Memoria e dell’Impegno Libera promuove una rosa di seminari di approfondimentoche nel pomeriggio del 21 consentiranno ai partecipanti di condividere un’occasione formativa.

Trasformare il proprio dolore in impegno

Un appuntamento importante, un’occasione di partecipazione per tanti familiari di vittime innocenti che hanno effettuato una scelta significativa: trasformare il proprio dolore in impegno, attraverso l’elaborazione del lutto e la condivisione dei propri ricordi, testimoniando in numerosi incontri la storia del proprio caro ucciso dalla violenza mafiosa e la loro stessa storia.

«Oggi – ricorda Libera – più dell’80 per cento dei familiari delle vittime innocenti di mafia non conosce la verità e non può avere giustizia. Dal 1861 a oggi sono 1.081 i nomi dell’elenco delle vittime innocenti delle mafie. 1.081 storie che ripercorrono tutta la storia d’Italia, dall’Unità fino all’anno scorso.
In totale, le donne vittime della violenza mafiosa sono 134. Alcune sono donne colpite da proiettili vaganti, altre sono vittime di vendette trasversali, uccise per legami parentali con uomini di mafia, ma del tutto estranee agli affari del clan. Altre, ancora, sono donne uccise per essersi opposte al potere economico, politico, sociale e “culturale” delle mafie. Amministratrici pubbliche, magistrate, poliziotte, ma anche donne provenienti da contesti mafiosi che si sono ribellate alla “cultura mafiosa”, finalizzata a costruire dei legami basati esclusivamente su rapporti di forza, violenza e sopraffazione. Sono, invece, 115 i nomi di bambini uccisi dalle mafie. La più piccola è Caterina Nencioni, 50 giorni, uccisa dalle bombe di via dei Georgofili, insieme a tutta la sua famiglia e al giovane Dario Capolicchio”.

Il documento completo della XXIX edizione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

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#ioperlei. Dona il tuo tempo per le mamme rare

Mar, 19/03/2024 - 07:00

Pronti a scendere in campo con l’Ac e la Fondazione Telethon? Diventa anche tu un volontario per sostenere la ricerca sulle malattie genetiche rare e donare speranza a tante famiglie.
Torna la Campagna di Primavera #ioperlei di Fondazione Telethon. Dedicata questanno alle mamme rare; protagonisti della Campagna sono Mamma Eleonora e Maria Vittoria (per tutti Mavi), una bellissima bambina di nove anni, a cui è stata diagnosticata, nei primi mesi di vita l’Atrofia muscolare spinale di tipo 2.
Con #ioperlei, mamma Eleonora e Mavi hanno scelto di mettersi in gioco perché sanno bene cosa comporta questa patologia, ma sanno anche bene che non bisogna mai smettere di investire in Ricerca, perché grazie alla Ricerca mamma Eleonora può guardare al futuro di Mavi con coraggio e speranza.

#ioperlei: nelle piazze di tutta Italia il 4 e 5 maggio

Anche quest’anno i volontari di Ac saranno con Fondazione Telethon presenti nelle piazze d’Italia il 4 e 5 maggio; in queste due giornate particolari facciamo sentire ancora più forte la nostra voce chiedendo a tutti di fare e facendo a nostra volta una scelta d’amore a sostegno delle mamme rare attraverso i Cuori di biscotto di Grondona, nelle tre varianti di gusto cacao con gocce di cioccolato, pasta frolla e l’edizione special Arancia di Sicilia con gocce di cioccolato. Il valore di donazione è 15 euro.

Inoltre è possibile organizzare i banchetti anche in altre date per essere flessibili, andare incontro alle esigenze dei volontari e cogliere tutte le opportunità che si dovessero presentare.
Come sempre è possibile distribuire le scatole di Cuori di biscotto tra amici, colleghi e parenti.

La lettera di Eleonora, Mamma di Mavi

Cari volontari di Azione Cattolica,
mi chiamo Eleonora, e sono la mamma orgogliosa di Maria Vittoria, una piccola forza della natura! Mavi è curiosissima e vivace, e da grande vorrebbe diventare una giornalista di successo, o una scrittrice proprio come il suo idolo J.K.Rowling, l’autrice di Harry Potter.
Nonostante la giovane età, la mia stellina è incredibilmente sveglia e consapevole dei propri limiti. Ha la capacità di fare domande profonde, che spesso spiazzano me e suo papà!
Una delle domande più difficili che ci ha posto è su quando verrà trovata una cura per tutti i bambini con malattie genetiche rare… è una risposta che io, come sua mamma, vorrei tanto darle, ma ancora non posso. Tuttavia, ho grande fiducia che tutti i volontari di Azione Cattolica possano unire le forze per aiutare la ricerca di Fondazione Telethon a fornire la risposta preziosa e tanto attesa!
Il 4 e 5 maggio, con #ioperlei, avrete di nuovo l’opportunità di diffondere la speranza attraverso un gesto semplicissimo, come quello di distribuire i Cuori di biscotto in parrocchia e privatamente tra amici, parenti e colleghi. Un modo davvero unico e speciale per festeggiare il decimo anno della Campagna di Primavera di Fondazione Telethon! Con il vostro impegno, potremo fornire risposte tangibili, non solo a Mavi, ma a tutti i bambini che sognano un futuro senza limiti. Grazie di cuore per il vostro supporto
Con gratitudine,
Eleonora
Mamma di Mavi

Manifesto Campagna a doppio logoDownload Manifesto Prodotto a doppio logoDownload Lettera di reclutamento e modalità organizzativeDownload Modulo di rendicontazioneDownload Vademecum CampagnaDownload

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In cammino verso la XVIII Assemblea nazionale

Sab, 16/03/2024 - 07:00

L’Azione cattolica italiana ha intrapreso il percorso verso la celebrazione della sua XVIII Assemblea nazionale, lo sta facendo in primo luogo attivando un processo autenticamente sinodale di partecipazione da parte di tutti soci, ragazzi giovani e adulti, in quasi tutte le diocesi italiane e in oltre 4500 realtà parrocchiali e interparrocchiali. Un processo possibile grazie all’impegno quotidiano dei suoi oltre 38.000 responsabili associativi e dei circa 7000 assistenti presenti ad ogni livello della vita associativa.

Abbiamo avuto modo di incontrare persone sinceramente coinvolte in una perseverante ricerca di sintesi creativa tra la novità della buona notizia del Vangelo e una vita quotidiana che appare spesso non solo sempre più frammentata e dispersa in contesti sociali precari, dominati da una competizione estrattiva delle risorse e dalla logica performante del successo a qualsiasi costo, ma anche “allucinata” (1) e distratta da un discorso pubblico sempre più artificiale e astratto. Una sorprendente rete di persone concrete, generose e appassionate, che hanno imparato a generare relazioni significative di cura e di promozione di vita buona a servizio degli altri, che imparano a tessere amicizie ecclesiali e sociali e che animano una progettualità formativa e culturale talvolta rassicurante e rituale ma molto spesso innovativa e capace di intercettare il bisogno profondo di cambiamento che viene espresso dalle persone nei diversi territori.

Volti e vite lungo tutto il paese

Un tessuto associativo fatto di volti che abbiamo incontrato da vicino, di storie che abbiamo accolto, di fatiche che abbiamo abbracciato, di interrogativi con cui ci siamo misurati, lo abbiamo fatto insieme a tutta la Presidenza nazionale nei tanti incontri avvenuti lungo tutto il paese. Sono state occasioni preziose in cui abbiamo contemplato con stupore la resilienza di una vita associativa che sa ripensarsi proprio come cura di persone e di relazioni, sfuggendo alla tentazione del funzionalismo e alla trappola di un efficientismo privo di anima e di prospettive.

Vivere l’esperienza associativa comporta oggi, più che nel passato, la fatica di convocare e tenere insieme le persone, la complessità di mettere a fuoco obiettivi che “accomunano”, che non si limitino a perseguire finalità settoriali promuovendo iperspecialismo e tecnocrazia. La sfida associativa è quella di promuovere la partecipazione di ciascuna persona alla vita democratica prima ancora che alle sue forme istituzionali ed ai suoi organismi. Ciò comporta la pratica paziente e sincera dell’ascolto reciproco, il gusto per il confronto e l’amore per la ricerca di ciò che unisce più che di ciò che divide (2), ma anche un allenamento interiore a riconoscere il valore delle decisioni che accomunano e a misurarne la loro qualità dal grado di condivisione e di cooperazione che esse sanno realizzare.

La Settimana sociale di Trieste: al cuore della democrazia

La prossima Settimana sociale che si terrà a Trieste, la cinquantesima nella storia di questa esperienza di partecipazione con cui si esprime il pensiero sociale cristiano e si raccoglie la varietà delle forme partecipative del movimento cattolico, mette a fuoco proprio l’urgenza di una buona manutenzione della vita democratica ritrovando il suo cuore, ossia la partecipazione: «partecipazione è sempre un campo di azione plurale, collettivo, comunitario, vitale, generativo, espressione di un “noi comunitario”. È un campo accessibile, dove nessuno deve sentirsi escluso dalla possibilità di incidere nei processi cruciali per la difesa e la promozione del bene comune; dove nessuno può chiamarsi fuori dalle responsabilità condivise, ma deve poter mettere in gioco i suoi talenti per il bene del suo quartiere, della sua città, del suo paese»(3).

Una vita associativa “convessa”

Accogliendo proprio tale prospettiva, sentiamo che l’itinerario assembleare può essere oggi un vero e proprio laboratorio di formazione alla vita democratica attraverso una partecipazione ad una vita associativa “convessa” che educa a non indugiare troppo nelle questioni organizzative interne, anzi sbilancia continuamente l’impegno associativo verso la costruzione della città di tutti, alla ricerca di una estroversione che spinge ad un lavoro insieme agli altri. È il desiderio originario e fondativo dell’Azione cattolica, presente sin dai suoi albori: testimoniare in modo luminoso il Vangelo della vita che dà forma a pazienti ma profonde tessiture di amicizia sociale che si aprono progressivamente in modo fraterno alla generazione della grande famiglia umana, come amava definirla Giorgio La Pira. Riconosciamo in questa dinamica ciò che ha ricordato papa Francesco nella sua lettera enciclica Fratelli tutti a proposito dell’amicizia sociale che «all’interno di una società è condizione di possibilità di una vera apertura universale» (99).

“Voler bene a tutti” e “volere il bene di tutti” si saldano evangelicamente nell’esperienza associativa come ci mostrano i suoi tanti testimoni credibili in ogni stagione della storia associativa. Tra questi vi è certamente Vittorio Bachelet, che nel saluto conclusivo alla prima Assemblea nazionale dopo il nuovo Statuto del 1969, definiva l’associazione una realtà spirituale e comunitaria tesa a convergere in «uno spirito comune […] essendo sempre più un cuor solo e un’anima sola» e orientata a promuovere quel «servizio che ci è chiesto per tutti i fratelli». Il brano di Atti 10, 34-38 illumina l’intero itinerario assembleare incoraggiandoci a dire insieme a Pietro che «Dio non fa preferenza di persone» e incoraggiandoci a promuovere una autentica e inclusiva partecipazione di tutti. «Todos, todos, todos!» (4).

Vita ecclesiale e vita civile e politica si intrecciano

La partecipazione piena alla vita ecclesiale, in virtù del battesimo, s’intreccia con la partecipazione piena alla vita civile e politica.
La prima esprime quel dinamismo che fa crescere la persona nel dono di sé e nel servizio generoso e gratuito agli altri senza fare distinzioni o preferenze; la seconda esprime un dinamismo altrettanto efficace di maturazione nella consapevolezza di essere portatori di diritti e doveri verso gli altri intesi nell’accezione più ampia di vita della società e dell’ambiente.

Proprio per questo l’itinerario assembleare è un’esortazione ad allargare la partecipazione oltre le forme tradizionalmente previste e animare il coinvolgimento di tutte le comunità ecclesiali, dei tanti simpatizzanti, delle amiche e degli amici delle altre aggregazioni ecclesiali e civili con cui stabilisce alleanze per il bene comune, per raccontare, proprio attraverso il cammino assembleare, il sogno di un’associazione che si sente chiamata a ripensarsi in modo accogliente ed inclusivo e a rigenerarsi attraverso la pratica quotidiana dell’ascolto e del dialogo. È un’associazione consapevole e umile, la nostra Ac del 2024, che ha vissuto, e vive ancora, l’attraversamento della complessità di questo tempo post-pandemico che ha rivelato, con ancora maggiore chiarezza, numerose criticità che già da tempo la secolarizzazione aveva posto ai credenti e alle comunità cristiane.

Sono le stesse questioni evidenziate da tutte le persone che sono state consultate e coinvolte nel cammino sinodale delle chiese che sono in Italia e, analogamente, in ogni parte del mondo in cui la Chiesa cattolica è presente; nodi e problemi che alimentano e stimolano una ricerca comune che incoraggia «ad uscire dalla prospettiva della “scelta giusta per me” ed entrare in quella della “scelta giusta per il bene della comunità”, a passare dalla logica dell’io a quella del noi» (5) .

Verso “noi”

La complessità oggi chiede più spazio alla logica comunitaria nella ricerca di soluzioni a sfide che sempre più ci accomunano: di fronte a tale complessità non vi possono essere scorciatoie individualistiche e solitarie. La vita comunitaria richiede il riconoscimento della pluralità e della varietà come valore più che come problema, occorre pertanto ripensare meccanismi e dispositivi sociali che siano più in grado di sostenere la capacità di tenere insieme il pluralismo senza per questo rassegnarsi ad immaginare la vita in comune come composizione di differenze esposta alla violenza, alla barbarie, alla lotta per la sopravvivenza.

Il ben-vivere delle comunità è ordinato ad una regolazione condivisa all’accessibilità e alle risorse per poter vivere; ogni forma di concentrazione, sia delle risorse sia del potere di regolazione, diventa una minaccia per il buon vivere di tutti, creando disuguaglianze e mettendo sempre più in contrapposizione le persone. Tanto la tecnologia quanto la finanza sono indubbiamente dei dispositivi sociali che influiscono pesantemente nella produzione di disuguaglianze, divenendo sempre più determinanti di conflitti sociali.

Crisi delle democrazie e potere umano

La crisi delle democrazie è oggi indubbiamente connessa alla questione del ripensamento del potere umano, accresciuto in modo impensabile sino a qualche decennio fa proprio grazie al combinato effetto della crescita tecnologica e della globalizzazione finanziaria (6) .

L’associazione avverte l’esigenza di investire ancora di più sul piano culturale e su una formazione autenticamente spirituale, volendo così interpretare in questo tempo la sua scelta religiosa come sollecitudine verso tutte le persone ad immergersi nella complessità e a non difendersi da essa, piuttosto abilitando ciascuno ad assumerla secondo lo stile esigente del discernimento personale e comunitario, riproponendo con creatività e innovazione percorsi di cura e accompagnamento, di ricerca e di impegno nutriti quotidianamente dall’ascolto della Parola e ritmati dalla celebrazione dell’Eucaristia.

È un dinamismo sinodale e missionario, che riconosce l’azione dello Spirito che continuamente rinnova e rigenera la vita ecclesiale e dona al mondo la Chiesa di cui esso ha bisogno.

(Articolo pubblicato sulla rivista Dialoghi n.1-2024)

Note

1 È un termine che allude ai rischi di distorsione del reale o di cattiva interpretazione dei dati che possono emergere nelle esperienze virtuali di Intelligenza artificiale.
2 Dal Testamento di san Giovanni XXIII.
3 Documento preparatorio della 50a Settimana sociale, pp. 15-16.
4 Papa Francesco, GMG Lisbona 2023.
5 Cei, Si avvicinò e camminava con loro, 2023, p. 5.
6 «Abbiamo compiuto progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza», Laudate Deum, n. 28.

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Laudato Si’: innamorati, cura, trasforma

Ven, 15/03/2024 - 12:00

Il Movimento Laudato Si‘ annuncia la riapertura del Programma Animatori Laudato Si’. Una formazione che unisce, in una comunità globale di preghiera e azione e per incoraggiare le proprie parrocchie, comunità locali, associazioni e movimenti ad impegnarsi per la spiritualità ecologica, per stili di vita sostenibili e per la difesa della giustizia climatica ed ecologica.

In Italia, la novità di quest’anno è l‘opportunità di formazione sia on demand in modalità mista (link al programma in partenza l’ 8 aprile 2024), sia in presenza a Roma ed online grazie alla collaborazione con la Pontificia Università Lateranense (link  al programma, iscrizioni entro 20 marzo 2024).

Un ciclo di tre seminari per prendersi cura della Casa comune

La cattedra Unesco sul Futuro dell‘educazione alla sostenibilità della Pontificia Università Lateranense, insieme al ciclo di Studi in ecologia e ambiente – Cura della nostra Casa comune e Tutela del Creato, che attiverà nell‘anno accademico 2024/2025 la Laurea triennale in Scienze sociali per la cooperazione, lo sviluppo e l’ecologia (L-37), organizzano nel periodo marzo-maggio 2024 un ciclo di tre seminari dal titolo: “Prendersi cura della nostra casa comune: la necessità di un cambio di rotta. Accompagnare e accelerare la transizione verso un paradigma etico-socio-economico basato sulla sostenibilità integrale”.

Grazie alla collaborazione con il Movimento Laudato Si’, al termine del ciclo di seminari gli studenti potranno ricevere il Certificato di Animatore Laudato Si’, previa partecipazione ad un incontro online (9 aprile 15.00-17.30), coordinato dallo stesso Movimento e la realizzazione di un “seme di speranza”: un’iniziativa concreta di sensibilizzazione sulla Laudato Si’, nel proprio ambito di appartenenza (familiare, lavorativo, parrocchiale, associativo, religioso…).
Questa metodologia di formazione in collaborazione con le Pontificie Università ed Atenei di Roma è già sperimentata nell’ambito del Joint diploma in Ecologia integrale, ora in corso e che dopo l’estate riaprirà le iscrizioni.

Per agire con urgenza e insieme

Dichiara Cecilia Dall’Oglio, Italian programs manager del Movimento Laudato Si’: «Questa collaborazione con la Pontificia Università Lateranense è segno dell’importanza della complementarietà della formazione didattica con quella sul campo, nell’impegno di animazione e per agire con urgenza ed insieme, come ci chiedono la Laudato Si’ e la Laudate Deum ed il cammino sinodale in atto». 

Le lezioni saranno disponibili dall’8 aprile (4 moduli). In più, ci saranno opportunità di vivere la dimensione comunitaria tra i partecipanti provenienti dalle diverse 36 realtà partner del Movimento (associazioni e movimenti, ordini religiosi, giovani animatori Progetto Policoro, parrocchie, diocesi…): un incontro introduttivo il 9 aprile (15.00-17.30) ed in occasione degli incontri che mensilmente si tengono tra gli Animatori Laudato Si’ italiani. Maggiori informazioni sul programma qui.

L’attenzione alla Laudate Deum e i relatori coinvolti

Un’altra novità del 2024 sarà anche l’opportunità di seguire un nuovo modulo sull’esortazione apostolica Laudate Deum, pubblicata lo scorso 4 ottobre, nella quale papa Francesco ci chiama nuovamente all’azione, con molta urgenza, nella cura della nostra casa comune.
Tale lezione sarà tenuta da mons. Luigi Renna, arcivescovo di Catania, presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, presidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei Cattolici in Italia, in diretta online la sera del 22 aprile, Giornata Mondiale della Terra e poi disponibile on demand.

Tra i relatori della formazione: il prof. Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr; mons. Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi, che ormai da sempre accompagna la formazione di tutti gli Animatori italiani presentando la Spogliazione di Francesco come modello di conversione all’ecologia integrale; mons. Armando Cattaneo, incaricato diocesano per la sensibilizzazione alla Laudato Si’ che sta coinvolgendo molto attivamente parrocchie, Animatori e Circoli Laudato Si’ della diocesi di Milano; Cecilia Seppia, giornalista di Vatican news, coordinatrice del Progetto “Storie per la Laudato Si’” del Dicastero per la Comunicazione”, Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli;  Ilaria de Bonis, giornalista professionista, redattrice del mensile Popoli e Missione, Fondazione Missio, Organismo Pastorale della Cei e giovani animatori.

Una risposta alla chiamata della Chiesa a tutti i fedeli

Il “Programma di formazione Animatori Laudato Si’” è una risposta alla chiamata della Chiesa a prendersi cura del Creato da parte di tutti i fedeli. Gli Animatori Laudato Si’, in tutto il mondo, sono 16.000.
In Italia, il programma è stato avviato nel 2019 e la rete italiana conta 3.500 Animatori e 200 Circoli Laudato Si’ attivi. Sono 233, gli Animatori che sono stati certificati nel 2023.
Anche quest’anno, gli Animatori e i Circoli Laudato Si’ hanno contribuito attivamente alle celebrazioni del Tempo del Creato. Sono stati promossi 353 eventi locali, con circa 70 diocesi coinvolte. Sempre in collaborazione con Organizzazioni membro e partner (tra cui i responsabili diocesani per la pastorale sociale ed il lavoro della Conferenza episcopale italiana). Più di 170 gli eventi supportati ed appoggiati da vescovi. Si stima in 15.500 le persone direttamente coinvolte.

Al termine del programma, con il completamento e la presentazione di un “progetto semi” che promuove la cura del Creato, gli animatori riceveranno un certificato ufficiale.
Da quel momento in poi potranno essere coinvolti in modo continuativo nella costruzione di una comunità: un circolo o qualsiasi altro tipo di comunità legata alla missione del Movimento Laudato Si’.

Le iscrizioni sono aperte sul sito laudatosianimatori.org, dove sono disponibili maggiori informazioni sulla proposta formativa 2024.

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I vescovi di Sicilia e l’autonomia differenziata

Gio, 14/03/2024 - 07:00

Toc Toc! Ancora una volta, i vescovi di Sicilia bussano alle “porte” della classe politica per fare sentire la propria voce. Infatti, mentre è in corso l’iter parlamentare relativo alla proposta volta ad introdurre il c.d. “regionalismo differenziato” (in questo momento il d.d.l. S615, superato l’esame del Senato, è approdato alla Camera), i pastori siciliani sono tornati a farsi sentire con un comunicato, che segue quanto già osservato nel maggio 2023, nel quale esprimono non poche preoccupazioni sulle conseguenze che potrebbero aversi se si giungesse all’approvazione della legge. Sembra opportuno soffermare l’attenzione su talune delle osservazioni che vengono svolte nel comunicato in discorso.

Chiesa e politica

Per prima cosa, preme anticipare una facile (e scarsamente consapevole) critica che potrebbe essere indirizzata ai prelati da parte di qualche poco avveduto commentatore: perché la gerarchia ecclesiastica si interessa di politica? Non dovrebbe forse “stare al suo posto” e limitarsi a trattare le cc.dd. “cose di Chiesa”? Chi fa queste considerazioni, con ogni evidenza, sconosce o sottovaluta lo stretto rapporto che sussiste tra fede e politica. Quest’ultima, infatti, secondo il senso etimologico del termine e l’insegnamento di Aristotele, è da intendersi come virtù al servizio del bene comune, che non è certo da intendersi come la somma dei “beni” (o, se si preferisce) degli interessi individuali, ma la sintesi degli stessi.

Come il Concilio Vaticano II ci ha insegnato, in uno straordinario e noto passaggio che fa da mirabile sintesi di quanto si sta ora dicendo, “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et spes 1).

Una maniera esigente di vivere l’impegno cristiano

D’altra parte, è a tutti nota l’affermazione di Paolo VI per la quale la politica è da considerare “una maniera esigente […] di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri” (Ocotegesima adveniens 46). Anche Francesco ha osservato che “la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune” (Evangelii gaudium 205). Non a caso, infatti, il Santo Padre ha invitato l’Azione cattolica italiana, il 30 aprile 2017, riunita in p.zza S. Pietro per festeggiare i suoi 150 anni di storia, a “mettete[rsi] in politica, ma per favore nella grande politica, nella Politica con la maiuscola!”.
Non è possibile soffermarsi sul punto, che pure merita primaria attenzione, essendo ora necessario entrare nel merito delle considerazioni dei vescovi.

Partiamo dalla fine: l’unità nazionale

Propongo di partire dalla fine del comunicato. In chiusura, i pastori fanno presente che “preoccupanti spinte secessioniste istituzionalizzate” mettono a rischio l’unità nazionale. Possiamo considerare davvero fondata tale paura? Per rispondere, conviene accennare un attimo al concetto di unità nazionale che, in estrema sintesi, si concreta in “quei principî nei quali si sostanzia l’idem sentire de re publica delle forze politiche che hanno dato vita all’ordinamento” (secondo le parole di T. Martines, compianto costituzionalista messinese); essa, infatti, fa (ed è) sintesi dei valori che stanno alla base dell’etica pubblica repubblicana. È allora da precisare che, a tal proposito, non si può fare riferimento solo all’“unità territoriale dello Stato, ma anche, e soprattutto, [al] senso della coesione e dell’armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che compongono l’assetto costituzionale della Repubblica” (Corte cost. n. 1 del 2013).

Non v’è dubbio che l’introduzione di forme differenziate di autonomia, se non adeguatamente predisposte, possano insidiare valori come quello di eguaglianza e di solidarietà, ma anche quello di unità ed indivisibilità della Repubblica ed altri ancora che appaiono preziosi al fine di favorire la coesione sociale ma, in generale e soprattutto, per preservare (e quindi non tradire) lo spirito della Costituzione italiana.

Il mancato richiamo all’art. 2 Cost. e la (nuova) “questione meridionale”

Inoltre, commentando il d.d.l., i prelati rilevano che “manca un esplicito e necessario richiamo all’art. 2 Cost.”, considerato “fonte del dovere di solidarietà sociale in favore dei soggetti meno abbienti”. Un riferimento a quest’ultima (fondamentale) previsione sarebbe stato molto utile e importante (anche se non indispensabile, perché potrebbe ritenersi implicito), ma non solo perché essa discorre dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. A norma dell’art. 2, principale fondamento del principio personalista che permea l’intera Carta del ’48, “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, che sarebbero minacciati da forme differenziate di autonomia che non fossero bene equilibrate.      

Infatti, il rischio che si accentui il divario tra Nord e Sud (in particolare) sul piano della tutela dei diritti fondamentali, generando un Paese “a due velocità” anche nel godimento degli stessi, è tutt’altro che peregrino.

Si ripropone in nuovi termini (e la ripropongono anche i vescovi) la “questione meridionale”, proprio nel tempo in cui la Costituzione, recentemente revisionata sul punto, promuove l’insularità (come ricordato nel comunicato che qui si discute).

A proposito dell’art. 5 Cost.

Una cosa, però, conviene chiarirla da subito: i valori di “unità e indivisibilità della Repubblica”, che sono espressi in un inciso dell’art. 5 Cost. (invero non richiamato dai vescovi) e che non sono da intendere solo in modo “fisico”, non si pongono in contrasto con il principio autonomistico, anch’esso alla base della Carta del ’48. Anzi, nel principio in parola si specifica che la Repubblica deve “riconosce[re] e promuove[re] le autonomie locali”, “attua[re] nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo” e “adegua[re] i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

I vescovi, opportunamente, osservano che l’autonomia differenziata è concessa dalla stessa Costituzione. Infatti, la possibilità di attribuire alle Regioni, con legge, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” è prevista all’art. 116, III comma, Cost. Tale previsione si pone in diretta attuazione dell’art. 5 Cost. ora cit., ma finora è rimasta “lettera morta”. Com’è chiaro, non ci si può dolere (e ci si dovrebbe rallegrare) del fatto che la Carta costituzionale venga attuata, ma purché non se ne deformino i tratti essenziali e non se ne tradisca lo spirito.

Sui LEP

Un altro punto messo in luce dai pastori siciliani è relativo ai livelli essenziali delle prestazioni (i cc.dd. LEP), che dovrebbero essere definiti con decreto legislativo e aggiornati con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (v. art. 3, VII comma). A quest’ultimo proposito, effettivamente, un conto è ricorrere all’uso di tali decreti in caso di emergenza, come accaduto durante la pandemia (anche se pure al riguardo si potrebbe discutere), altro è fare ricorso a tale fonte in condizioni di “normalità”. Ragioni di economicità e di tempo non sembrano infatti sufficienti a giustificare una esautorazione del Parlamento dalla procedura di aggiornamento in discorso.

In conclusione

Purtroppo non c’è spazio per affrontare gli altri aspetti messi in risalto dai vescovi siciliani, ma quanto detto pare sufficiente a rilevare che le preoccupazioni messe in luce dagli stessi sono tutt’altro che infondate. L’auspicio, allora, è che questa voce non rimanga inascoltata, ma soprattutto che ad essa si unisca quella del laicato cattolico che, per i motivi che si sono fugacemente esposti, non può stare ai margini del dibattito pubblico, ma ad esso deve partecipare con senso di responsabilità ed in spirito di servizio, al fine di vivere una fede “incarnata” e non intimista capace di leggere i “segni dei tempi” e di accogliere (e, possibilmente, superare) le sfide che gli si presentano (cfr. Evangelii gaudium 109).

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Ambivalenza delle frontiere

Mar, 12/03/2024 - 09:05

Il confine delimita uno spazio dove le diverse identità si incontrano e si riflettono l’una nell’altra, ed è in tal senso che esso è anche frontiera. Proprio in quanto implicano la relazione ad altri, le frontiere possono essere uno spazio di arricchimento e di sviluppo oppure luogo di respingimento e di umana miseria. Il senso dell’umano e delle relazioni si gioca nel modo in cui le concepiamo e le viviamo. Su questa Ambivalenza delle frontiere riflette il “dossier” proposto da «Dialoghi» (n.1-2024) e curato da Pina De Simone e Carlo Cirotto.

I contributi del dossier sono, nell’ordine: Porosità dei confini tra biologia, architettura e geopolitica forum con Maria Antonietta Crippa, Pietro Ramellini, Luciano Tosi; Le frontiere nella storia e nel tempo presente di Sandro Calvani; Rive, periferie e altri muri: la violenza della frontiera di Marta Cariello; Membrane. Gli incredibili confini della vita di Carlo Cirotto; Ambivalenza delle frontiere nelle relazioni intersoggettive di Donatella Pagliacci; Dal dialogare “frontale” all’intrattenersi di Annalisa Caputo.

Oltre al “dossier”, scorrendo l’indice del trimestrale culturale promosso dall’Azione cattolica italiana troviamo l’editoriale Quando le frontiere diventano porose diPina De Simone. La porosità si addice alle frontiere perché è propria della vita, che non sopporta separazioni o settorializzazioni troppo nette. Saper abitare le frontiere, attraversandole, è quello che ci è chiesto nella comprensione della realtà e perché l’umano fiorisca.

Seguono i contributi di “primo piano”:
In cammino verso la XVIII Assemblea nazionale di Giuseppe Notarstefano. L’itinerario assembleare dell’Azione cattolica si presenta come un laboratorio di vita democratica attraverso la partecipazione a una vita associativa ed ecclesiale che promuove l’impegno nella costruzione della città.
Il multilateralismo: una bussola per l’era globale di Lucia Capuzzi. La crisi climatica globale mostra le interconnessioni tra i paesi e acuisce il problema delle disuguaglianze. La via d’uscita da percorrere, come è apparso chiaro a Dubai, non può che essere quella del multilateralismo.

Per la rubrica “eventi e idee” troviamo:
Alla ricerca di regole condivise per governare l’IA diLuca Grion. Lo sviluppo dell’IA e la sua rapida diffusione in molti ambiti della nostra vita hanno imposto una riflessione profonda ai massimi decisori istituzionali. Appare essenziale pensare la governance di tali strumenti, in modo da garantire i diritti della persona, diminuendo o eliminando distorsioni, sbilanciamenti di poteri, scarsa equità.
Formare alla relazione. Una sfida non solo per la Scuola di Erminia Foti, Alfonso Lanzieri, Luca Micelli. La cronaca, spesso, provoca la società a rivedere il proprio sistema educativo e l’opinione pubblica interpella la Scuola affinché preveda attenzioni specifiche attorno ad alcune questioni, tra le altre quella dell’affettività e della relazione. Giusto, ma solo se non si pretende di educare aggiungendo ore e se si pensa la Scuola in una rete più ampia di agenzie educative generative.

Interessante e ricca di inviti alla lettura la sezione “il libro & i libri” con i testi:
Per un umanesimo rigenerato di Vincenzo Di Pilato, recensione a E. Morin, L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera.
Tensione escatologica e ordine politico di Fabio Mazzocchio, recensione a O. Cullmann, Dio e Cesare.
Il populismo pregiudica la democrazia di Gian Candido De Martin, recensione a A. Scurati, Fascismo e populismo. Mussolini oggi.
Per narrare bene occorre educarsi bene di Lorenzo Pellegrino, recensione a N. La Sala, L’universo narrativo dei social media. Racconto e responsabilità al tempo della rete.

Chiude il numero la rubrica “profili” con il contributo Sulla soglia con Simone Weil di Ilaria Vellani. A ottant’anni dalla sua morte, Simone Weil parla ancora alla nostra intelligenza, provoca la nostra partecipazione, ci convoca sulle tante soglie sulle quali attendere: come quella della possibilità di una piena giustizia, quella della fascinazione del potere e del suo depotenziamento, quella di un pensare il femminile in modo aperto e decentrato.

Per ulteriori info e per abbonarsi visita il sito rivistadialoghi.it o scrivi a abbonamenti@editriceave.it tel. 06 661321 – fax 06 6620207

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L’Europa e quel cammino da riprendere

Sab, 09/03/2024 - 09:59

Il futuro dell’Europa ci interessa e ci appartiene, come cittadini e come credenti. In particolare, siamo coscienti che le prossime elezioni europee (6-9 giugno 2024) rappresentino uno sparti acque nella costruzione della casa comune degli europei. I “lavori” sono in stallo e occorre farli ripartire al più presto, così che l’Europa unita non resti una incompiuta (senza una fiscalità unica, senza una difesa comune, senza una vera politica estera unica, senza una costituzione ma figlia di trattati), alla merce degli interessi di parte che ciascuno degli inquilini si si trascina con sé.

È il pensiero di fondo che ha attraversato il convegno “Cittadini e credenti nell’Europa che verrà” tenutosi ieri a Roma, presso l’Università Lumsa, e promosso da Azione Cattolica, Meic, Mieac e Fuci, per ragionare su quello che gli americani chiamano “stato (di salute) dell’Unione”; in questo caso a ragion veduta, essedo gli Usa una federazione di Stati, cosa che – lo ricordiamo – non è l’Unione europea, essendo ad oggi (più o meno) solo il frutto di accordi (trattati) tra Stati che hanno accettato di rinunciare a pezzi di sovranità nazionale (ad esempio quella monetaria).

Un federalismo europeo compiuto: l’unica via possibile

Di fronte alle sfide che attraversano il vecchio continente, guerra e crisi economica su tutte, risaltano ancor di più i limiti di una Unione tra 27 Paesi che tale non è ancora. Bloccata da lacci e lacciuoli primo tra tutti un “criterio di unanimità” delle decisioni che porta a nessuna decisione o a compromessi che ai più paiono pezze peggiori del buco (pensiamo al “ricatto” messo in atto dal governo ungherese, e non solo, sulla politica di gestione dei migranti). Andare, verso il federalismo europeo compiuto è dunque l’unica via possibile per uscire dal pantano, facendo dell’Unione un soggetto politico autonomo e svincolato dai mal di pancia dei singoli Stati membri.

Oltre l’incompiutezza, la disillusione e la tecnocrazia

Superando quella che il sociologo Mauro Magatti ha definito “l’Europa incompiuta”, denunciando la disillusione come «il sentimento prevalente oggi, perché viviamo il dramma della guerra in un continente che nasceva su un’idea di pace, e per il dramma della logica dei muri con cui affrontiamo il tema migratorio».
Secondo il sociologo dell’Università Cattolica, «la legislatura europea che si è conclusa ha molti punti positivi, nella capacità che ha avuto di rispondere tempestivamente a molte emergenze, dalla pandemia alla guerra in Ucraina», tuttavia «la lentezza con cui stiamo discutendo il tema della difesa comune è problematica quanto ingiustificata». Magatti riconosce che l’“obiezione tecnocratica” degli antieuropeisti ha un suo fondamento «e con essa – pur da europeista convinto – bisogna discutere e dare risposte», e la risposta non può che essere «un di più di politica e non di norme». E fa un esempio concreto: «Tutti siamo per la sostenibilità, ma la transizione ecologica è stata posta in modo tale che i costi sono a carico delle parti più deboli della società». È stata “pensata” in modalità tecnocratica e non politica.

Mons. Crociata: la secolarizzazione indebolisce la base popolare di tutte le Chiese in Europa

Il convegno è proseguito sul tema del contributo religioso alla costruzione europea. Mons. Mariano Crociata, presidente della Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea (Comece), ha voluto ricordare le parole di Romano Guardini: «L’Europa, ciò che è, lo è attraverso Cristo […] Se l’Europa si staccasse totalmente da Cristo allora, e nella misura in cui questo avvenisse, cesserebbe di essere».
Il presule ha quindi sottolineato la necessità che «cultura ed ethos si poggino su una radice profonda per poter sopravvivere». Portato all’oggi del vecchio continente, ne deriva da un lato «la difficoltà a dialogare con una Europa che non è più quella dei democristiani Schuman, De Gasperi e Monnet, ma anche a fare i conti con una secolarizzazione che indebolisce la base popolare di tutte le Chiese in Europa».
«Non dimentichiamo che le fedi sono il retroterra plurisecolare da dove nascono i Paesi dell’Europa. E che il cristianesimo è un elemento fondamentale all’idea di un’Unione dei Paesi europei», ha osservato mons. Crociata. Denunciando: «Oggi ci troviamo immersi in un paradigma consumistico e tecnocratico che produce una riduzione privatistica di ogni istanza etica».

Prodi: il futuro dell’Europa passa dalla Francia

A dar manforte al presidente della Comece l’intervento di Romano Prodi, che della Commissione europea è stato presidente. Guardando ai fenomeni di stravolgimento della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta fino ad ora e all’allontanamento progressivo tra Stati Uniti ed Europa, Prodi nel sull’intervento ha richiamato alla responsabilità uno dei Paesi che maggiormente ha peso negli assetti dell’Unione: la Francia. Anche se posizioni come quella assunta dalla Francia sull’aborto in Costituzione – decisione approvata pochi giorni fa – «non fa che allontanare la Francia e dividere l’Europa».

A partire dalla difesa comune

Eppure, per Prodi, «nell’ottica di una difesa comune e di un riequilibrio in seno alla Nato, la Ue dovrebbe parlare con una voce sola». Questo, però, può avvenire solo con l’aiuto della Franci. Del suo arsenale nucleare e del suo seggio con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu». Dunque, solo partendo dalla Francia è possibile, attualmente, costruire una politica di difesa comune in Ue. Così come una prospettiva unitaria di politica estera comune, che riconsideri un riequilibrio delle forze nel Patto Atlantico. Prodi ha ricordato: «La Nato è un patto, non una obbedienza», sottolineando che oggi la posizione dell’Europa è fin troppo subordinata ai desiderata di Washington».

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Il lavoro per la partecipazione e la democrazia

Gio, 07/03/2024 - 07:00

Di certo è con il pensiero alla prossima Settimana sociale dei cattolici in Italia, in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio venturo (con a tema “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”), che quest’anno i vescovi italiani rivolgono al Paese il loro tradizionale Messaggio per la Festa dei Lavoratori (1° maggio 2024). Mettendo in relazione una delle pagine più intense della dottrina sociale della Chiesa, l’enciclica Centesimus annus, vergata da San Giovanni Palo II, con l’articolo 1 della Costituzione italiana.
La “res pubblica”, cioè la “cosa pubblica”, ma potremmo tradurre anche la “casa comune”, è frutto del lavoro di uomini e donne che hanno contribuito e continuano a contribuire a un Paese democratico: «Senza l’esercizio di questo diritto e l’assicurazione che tutti possano esercitarlo, non si può realizzare il sogno della democrazia».

La povertà più grande è la mancanza di lavoro

Un altro passaggio particolarmente significativo del Messaggio prende spunto dalla Fratelli tutti di Francesco, dove il pontefice ricorda come il lavoro sia “il grande tema” che può davvero migliorare la politica. Scrive Bergoglio: «Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze». I vescovi, allora, ribadendo come non esista peggior povertà di quella che priva del lavoro, invitano a «investire in progettualità, formazione e innovazione» aprendosi alle nuove tecnologie «che la transizione ecologia sta prospettando» per creare condizioni di equità sociale. Per i presuli, è necessario guardare anche agli scenari di cambiamento che può innescare l’intelligenza artificiale «in modo da guidare responsabilmente questa trasformazione ineludibile».

Diritti e dignita per i lavoratori precari e i lavoratori immigrati

Alle istituzioni i presuli ricordano come un lavoro dignitoso esiga anche «un giusto salario e un adeguato sistema previdenziale» per colmare i divari economici tra le generazioni e anche tra uomini e donne, altrimenti «non si potrà parlare di una democrazia compiuta nel nostro Paese». Il Messaggio non dimentica le gravi questioni del precariato e dello sfruttamento dei lavoratori immigrati e ,allo stesso tempo, una particolare attenzione è dedicata alla sicurezza sui luoghi di lavoro, questione urgente cui porre attenzione «dato l’elevato numero di incidenti che non accenna a diminuire». Se da una parte i vescovi si rivolgono agli imprenditori chiamati a questi «compiti di giustizia» di generare occupazione, assicurare contratti equi e sicuri, dall’altra ai lavoratori raccomandano di sentirsi «corresponsabili del buon andamento produttivo e della crescita del Paese».

Il testo del Messaggio dei vescovi italiani per la Festa dei Lavoratori
Il lavoro per la partecipazione e la democrazia (1° maggio 2024)

Lavorare è fare “con” e “per”

«Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5,17). Queste parole di Cristo aiutano a vedere che con il lavoro si esprime «una linea particolare della somiglianza dell’uomo con Dio, Creatore e Padre» (Laborem exercens, 26). Ognuno partecipa con il proprio lavoro alla grande opera divina del prendersi cura dell’umanità e del Creato. Lavorare quindi non è solo un “fare qualcosa”, ma è sempre agire “con” e “per” gli altri, quasi nutriti da una radice di gratuità che libera il lavoro dall’alienazione ed edifica comunità: «È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana» (Centesimus annus, 41).
In questa stessa prospettiva, l’articolo 1 della Costituzione italiana assume una luce che merita di essere evidenziata: la “cosa pubblica” è frutto del lavoro di uomini e di donne che hanno contribuito e continuano ogni giorno a costruire un Paese democratico. È particolarmente significativo che le Chiese in Italia siano incamminate verso la 50ª Settimana Sociale dei cattolici in Italia (Trieste, 3-7 luglio), sul tema “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”. Senza l’esercizio di questo diritto, senza che sia assicurata la possibilità che tutti possano esercitarlo, non si può realizzare il sogno della democrazia.

Il “noi” del bene comune: la priorità del lavoro

Come ricorda Papa Francesco in Fratelli tutti, per una migliore politica «il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze» (n.162). Le politiche del lavoro da assumere a ogni livello della pubblica amministrazione devono tener presente che «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro» (ivi).
Occorre aprirsi a politiche sociali concepite non solo a vantaggio dei poveri, ma progettate insieme a loro, con dei “pensatori” che permettano alla democrazia di non atrofizzarsi ma di includere davvero tutti (cfr. Fratelli tutti, 169). Investire in progettualità, in formazione e innovazione, aprendosi anche alle tecnologie che la transizione ecologica sta prospettando, significa creare condizioni di equità sociale. È necessario inoltre guardare agli scenari di cambiamento che l’intelligenza artificiale sta aprendo nel mondo del lavoro, in modo da guidare responsabilmente questa trasformazione ineludibile.

Prenderci cura del lavoro è atto di carità politica e di democrazia

“A ciascuno il suo” è questione elementare di giustizia: a chiunque lavora spetta il riconoscimento della sua altissima dignità. Senza tale riconoscimento, non c’è democrazia economica sostanziale. Per questo, è determinante assumere responsabilmente il “sogno” della partecipazione, per la crescita democratica del Paese.

Condizioni di lavoro dignitose

Le istituzioni devono assicurare condizioni di lavoro dignitoso per tutti, affinché sia riconosciuta la dignità di ogni persona, si permetta alle famiglie di formarsi e di vivere serenamente, si creino le condizioni perché tutti i territori nazionali godano delle medesime possibilità di sviluppo, soprattutto le aree dove persistono elevati tassi di disoccupazione e di emigrazione. Tra le condizioni di lavoro quelle che prevengono situazioni di insicurezza si rivelano ancora le più urgenti da attenzionare, dato l’elevato numero di incidenti che non accenna a diminuire. Inoltre, quando la persona perde il suo lavoro o ha bisogno di riqualificare le sue competenze, occorre attivare tutte le risorse affinché sia scongiurato ogni rischio di esclusione sociale, soprattutto di chi appartiene ai nuclei familiari economicamente più fragili, perché non dipenda esclusivamente dai pur necessari sussidi statali.

Un giusto salario e un adeguato sistena di previdenza

Un lavoro dignitoso esige anche un giusto salario e un adeguato sistema previdenziale, che sono i concreti segnali di giustizia di tutto il sistema socioeconomico (cfr. Laborem exercens, 19). Bisogna colmare i divari economici fra le generazioni e i generi, senza dimenticare le gravi questioni del precariato e dello sfruttamento dei lavoratori immigrati. Fino a quando non saranno riconosciuti i diritti di tutti i lavoratori, non si potrà parlare di una democrazia compiuta nel nostro Paese. A questo compito di giustizia sono chiamati anche gli imprenditori, che hanno la specifica responsabilità di generare occupazione e di assicurare contratti equi e condizioni di impiego sicuro e dignitoso.

La salvaguardia dei diritti di tutti

I lavoratori, consapevoli dei propri doveri, si sentano corresponsabili del buon andamento dell’attività produttiva e della crescita del Paese, partecipando con tutti gli strumenti propri della democrazia ad assicurare, non solo per sé ma anche per la collettività e per le future generazioni, migliori condizioni di vita. La dimensione partecipativa è garantita anche dalle associazioni dei lavoratori, dai movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e con gli uomini del lavoro che, perseguendo il fine della salvaguardia dei diritti di tutti, devono contribuire all’inclusione di ciascuno, a partire dai più fragili, soprattutto nelle aziende.

Ciascuno deve essere segno di speranza

Le Chiese in Italia, impegnate nel Cammino sinodale, continuano nell’ascolto dei lavoratori e nel discernimento sulle questioni sociali più urgenti: ogni comunità è chiamata a manifestare vicinanza e attenzione verso le lavoratrici e i lavoratori il cui contributo al bene comune non è adeguatamente riconosciuto, come anche a tenere vivo il senso della partecipazione. In questa prospettiva, gli Uffici diocesani di pastorale sociale e gli operatori, quali i cappellani del lavoro, promuovano e mettano a disposizione adeguati strumenti formativi. Ciascuno deve essere segno di speranza, soprattutto nei territori che rischiano di essere abbandonati e lasciati senza prospettive di lavoro in futuro, oltre che mettersi in ascolto di quei fratelli e sorelle che chiedono inclusione nella vita democratica del nostro Paese.

Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace

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Concorso: Inno ACR 2024/2025

Mar, 05/03/2024 - 10:19

Cerchiamo l’autore che farà cantare e saltare tutti i ragazzi dell’ACR nel prossimo anno associativo!
Pensi che potresti essere tu?

Ebbene sì, il momento tanto atteso è arrivato: il contest dell’inno sta per cominciare!
È finalmente possibile iscriversi al Concorso per il nuovo Inno Acr che accompagnerà i bambini e i ragazzi di tutta Italia per l’Anno Associativo 2024/2025!

Vi invitiamo a mettere in moto la vostra creatività e a dedicare il vostro talento musicale e le vostre energie per realizzare il testo e la musica del prossimo inno. Il Tema del Concorso trova origine e riferimento nell’Iniziativa Annuale dell’ACR per l’anno 2024/2025 che ha come slogan: È
la tua parte!

La modalità di partecipazione è semplice e veloce: basta cliccare sul pulsante

Partecipa al concorso

fare il login o registrarsi al sito se si è nuovi utenti, e compilare i dati richiesti.

Compilati tutti i campi, cliccate “INVIA”. Nella pagina successiva potete scaricare il regolamento con tutto il materiale e le indicazioni necessarie per completare la vostra partecipazione al concorso e cimentarvi nella composizione!

La scadenza di presentazione dell’inno è fissata al 16/04/2024.

Non vediamo l’ora di ascoltare le vostre proposte musicali,
buon lavoro!

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La politica non resti sorda alle domande della società civile

Mar, 05/03/2024 - 07:00

Negli ultimi quindici anni le esportazioni di armi nel nostro Paese sono aumentate in modo considerevole. La vendita si è quintuplicata fino a oggi: ciò è avvenuto per una serie di accordi dei Governi di vario colore con i Paesi che ne hanno fatto richiesta. In particolare le armi sono andate a finire nei Paesi in guerra, quelli che non rispettano i diritti umani. Nel 2022 le autorizzazioni per la vendita e l’acquisto di armi in Italia hanno raggiunto un valore superiore ai 6 miliardi di euro, di cui quasi 5,3 miliardi in uscita dal nostro Paese. Le autorizzazioni per le esportazioni di armamenti sono cresciute del 15 per cento rispetto al 2021. I dati sono terribili. Questo è avvenuto perché la legge 185/90 aveva un piccolo comma che dichiarava che i Paesi con i quali l’Italia aveva preso accordi di cooperazione militare erano esclusi dalle restrizioni.

Chi si è mobilitato: l’appello alla coscienza dei parlamentari

Numeri e preoccupazioni crescenti sono stati presentati ieri durante una conferenza stampa (L’impegno dei cattolici a favore della legge 185/90. Un appello alla coscienza dei Parlamentari contro il falso realismo della guerra), in cui alcune associazioni della società civile – Azione Cattolica Italiana, Acli, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Movimento dei Focolari Italia, Pax Christi Italia, Agesci – e rappresentati del mondo del disarmo, tra i quali Alex Zanotelli, missionario comboniano, tra i promotori della legge 185/90, Maria Elena Lacquaniti, coordinatrice Commissione globalizzazione e ambiente della Federazione Chiese evangeliche in Italia  e Maurizio Simoncelli, cofondatore dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, hanno presentato alcune riflessioni in merito a due punti fondamentali della legge 185/90.

In particolare la preoccupazione che questo Governo voglia eliminare di fatto la legge attraverso delle modifiche che vanno ad emarginare innanzitutto l’Uama, Autorità nazionale-Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento, a favore di un comitato governativo che può deliberare tranquillamente senza alcuna restrizione o controllo in merito. E soprattutto la possibilità che venga eliminato l’elenco delle banche che investono in armi.

Un po’ di storia: la legge 185/90

La legge 185 del 1990 che regola l’esportazione di armi è una grande conquista della società civile italiana che ha visto parte dell’associazionismo cristiano impegnato in prima fila nella campagna Contro i mercanti di morte. L’appello lanciato partiva da un realistico dato di fatto: le armi italiane uccidevano (e uccidono) in tutto il mondo. Ed era facile esportare armi a tutte le parti in conflitto. La normativa è stata speso aggirata in tanti modi, durante questi oltre 30 anni di vita, ma è rimasta costantemente sotto attacco. 

Sono tanti gli interessi trasversali che la considerano un ostacolo all’espansione di un settore produttivo in forte competizione su scala planetaria nel contesto della guerra mondiale a pezzi. Lo testimonia la folta presenza delle aziende italiane nelle expo di armi come il “World Defense Show” che si è tenuto ad inizio febbraio in Arabia Saudita. 

Non smantelliamo la 185/90. E la politica riconosca le domande della società civile

«Il tentativo di procedere al progressivo smantellamento della legge 185/90 – dicono nel comunicato stampa le associazioni – sembra ormai avviato a compimento con il voto del Senato dello scorso 21 febbraio come denuncia Rete italiana pace e disarmo che ha avanzato proposte migliorative rimaste senza riscontro. Purtroppo siamo davanti ad uno scenario che avevamo previsto con la Conferenza stampa promossa alla Camera lo scorso 4 ottobre 2023 per affermare che salvare questa legge vuol dire applicare la Costituzione». 

«Alla vigilia del voto della Camera, che cambierebbe in peggio la legge, a cominciare dalla trasparenza sulle banche che finanziano il settore delle armi, sentiamo il dovere di rivolgere un ulteriore appello alla coscienza dei Parlamentari invitandoli a salvare e migliorare la legge 185/90 in nome della comune umanità che ripudia la guerra».

Il presidente di Ac: «la politica non resti sorda alle domande della società civile»

Per Giuseppe Notarstefano, intervenuto alla conferenza stampa, è fondamentale unirsi con tutte le nostre forze a chi cerca un’interlocuzione con il Governo per difendere il riferimento formativo «a cui non possiamo rinunciare nel nostra cammino di ricerca di una democrazia reale. Il contrario della guerra non è solo la pace, bensì la democrazia. Facciamola funzionare con presidi civici, etici, formativi, giuridici, politici».

Per Notarstefano il disarmo è un percorso che chiede di rinunciare all’utilizzo della guerra e a tutti gli strumenti che la favoriscono. Diamo voce a tutti quei giovani, ai gruppi, alle associazioni che si impegnano ogni giorno nell’artigianato della pace, come fa l’Azione cattolica.

È inaccettabile, conclude Notarstefano, «che la politica non resti sorda alle domande della società civile che arriva dal basso. La politica deve ritornare a battere un colpo. Papa Francesco ci ha chiesto di immaginare nuove revisioni del futuro. Questo è il momento. Proprio quando la speranza sembra vana, è importante portare avanti iniziative come queste».

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Europa, un progetto per il futuro

Lun, 04/03/2024 - 10:55

Settecentoventi deputati, provenienti da 27 Paesi, con 24 lingue differenti. Due sedi (Strasburgo e Bruxelles), circa 7mila dipendenti, 2mila assistenti parlamentari, un migliaio di funzionari dei gruppi politici. È un ritratto, in pillole, del Parlamento europeo, che gli elettori rinnoveranno dal 6 al 9 giugno (in Italia si voterà solo domenica 9). Dal 1979 l’Assemblea dell’Unione europea viene eletta a suffragio universale, mentre prima gli eurodeputati venivano nominati dai rispettivi parlamenti nazionali. 

Il prossimo giugno saremo chiamati dunque a plasmare il futuro della democrazia europea attraverso le elezioni, un momento importante in cui sarà possibile decidere collettivamente del nostro futuro europeo.

Per un voto consapevole

Quanti cittadini conoscono realmente (o almeno a grandi linee) le competenze del Parlamento europeo e il suo peso reale all’interno dell’architettura politica comunitaria? Quanti sanno le materie sulle quali può, e quelle su cui non può, legiferare l’Euroassemblea? Chi sa la differenza tra un regolamento, una direttiva o una risoluzione del Parlamento europeo? Chi ha idea di quale sia il bilancio (ovvero le risorse a disposizione) dell’Ue?

Ci si domanda se i cittadini chiamati alle urne possiedono gli elementi essenziali per esprimere un giudizio consapevole, dando il proprio voto a un partito piuttosto che a un altro, la preferenza a un candidato piuttosto che a un altro, sulla base della propria “idea di Europa” e di quella espressa e perseguita dai partiti e dai candidati in lizza.

Un evento dell’editrice Ave: Europa, un progetto per il futuro

È importante arrivare preparati a questo appuntamento democratico. L’Editrice Ave, in collaborazione con Indialogo, organizza per giovedì 7 marzo, alle ore 18, a Roma presso la Libreria San Paolo Conciliazione un incontro dal titolo Europa, un progetto per il futuro.

Partendo da due testi editi dall’Editrice – Scegliere l’Europa a cura di Gianni BorsaSalvare l’Europa di Enzo Romeo – sarà possibile riflettere sul significato di questa importante e necessario organismo politico.

All’evento saranno presente gli autori dei libri, con la moderazione di Vania De Luca, giornalista e vaticanista del Tg3.

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Un “noi” sempre più grande

Sab, 02/03/2024 - 07:00

Siamo ormai immersi nel cammino che ci sta portando alla XVIII Assemblea nazionale che celebreremo dal 25 al 28 aprile dopo aver incontrato con tutta l’associazione papa Francesco in Piazza San Pietro. Stiamo vivendo il cammino assembleare dentro il più ampio cammino sinodale che anche attraverso le nostre riflessioni e scelte vorremmo aiutare a tradursi in concretezza favorendo l’apertura a orizzonti di speranza. Abbiamo cercato di concretizzare nei nostri cammini particolari la traccia di riflessione, verso un “noi” sempre più grande, in sinossi alle indicazioni per la fase sapienziale del cammino sinodale che i nostri vescovi ci anno consegnato negli scorsi mesi.

Un cammino iniziato qualche mese fa

Quello iniziato qualche mese fa è stato un cammino in cui l’associazione ha cercato di ascoltare tutti i soci valorizzando l’unitarietà e la partecipazione anche ai simpatizzanti e a coloro che si sono un po’ allontanati dall’associazione, provando anche ad aprire il cammino ad altre aggregazioni con cui costruire alleanze sul territorio, nel desiderio di rispondere alla richiesta di papa Francesco di prenderci cura della costruzione di «noi sempre più grande».

Con questa riflessione desideriamo prenderci cura di questo nostro tempo e della vita comune di tutti, attraversare le sfide che siamo chiamati a vivere cercando di leggerne insieme i segni e provare a dare risposte alle domante “giuste” come già gli orientamenti di questo triennio ci invitavano a fare. È anche un cammino nel quale desideriamo ribadire con franchezza all’associazione e con propositività alla Chiesa e alla società come la vita associativa oggi possa essere capace di corrispondere alle sfide pastorali, culturali e sociali che stanno caratterizzando questo cambiamento d’epoca.

Il cammino assembleare: verso un “noi” più grande

Il nostro cammino assembleare sta cercando di essere un cantiere di formazione spirituale e progettazione associativa e lo fa partendo da tre punti che abbiamo individuato come basilari: parola e discernimento, ascolto e dialogo, missione e generatività.

Queste dimensioni sono fondamentali per essere Ac in questo tempo, sono i modi che abbiamo per stare nel mondo e le chiavi di lettura di tutto ciò che facciamo o che siamo chiamati a fare, le “lenti” necessarie per fare discernimento prima di fare scelte operative


La Parola ci aiuta nel discernimento e nella capacità di essere accoglienti e inclusivi. L’ascolto della Parola e il discernimento alla luce dello Spirito ci condurranno a intraprendere percorsi per essere aperti alle novità e alle potenzialità di bene e di inclusione: se lasciamo che lo Spirito “danzi” in mezzo a noi sapremo rappresentare una metafora vivente di Chiesa che accoglie e ama.

Questo sarà possibile attraverso l’ascolto e il dialogo che diventano per noi laici di Ac un atteggiamento contemplativo fondamentale con cui abitare il tempo e nel quale saper sentire la voce del Signore e prenderci cura dei fratelli che ci sono affidati.

Lo stile che in tutto questo siamo chiamati a vivere è quello della missione e della generatività consapevoli che una missione che si fa generativa educa alla responsabilità, al dialogo e all’incontro, ci fa essere significativi nel contesto sociale, ci invita a coinvolgere più persone possibili nell’«organizzare la speranza» (don Tonino Bello) verso una conversione pastorale profonda.

Altre aree di impegno

A partire da queste chiavi di lettura ci sono le aree di impegno che sentiamo prioritarie oggi e che vorremmo leggere alla luce di questi punti di partenza: persone e comunità, comunione e responsabilità, formazione e cultura, spiritualità e sinodalità.

Pensando alla comunità e alle persone che la costituiscono nostro compito è quello di creare relazioni significative che ci permettano di aiutare le nostre parrocchie a essere volto della comunità credente nel territorio. In questo rinnoviamo l’impegno a sostenere la vita comunitaria e lo slancio missionario perché la Chiesa sia casa per tutti.

Prendersi cura gli uni degli altri

Come discepoli missionari il nostro modo di vivere è caratterizzato dalla correlazione di comunione e responsabilità che ci chiama a vivere la responsabilità non come un ruolo passeggero ma come méta e che diviene uno stile che ci rende più responsabili anche altrove, in ogni ambiente di vita, rendendo viva un’associazione di persone che si prendono cura le une delle altre.

Vivendo pienamente ogni ambiente di vita siamo pronti a confrontarci con le istanze sociali e culturali del nostro tempo, cercando di condividere degli strumenti concreti e accessibili, utili a cercare delle risposte ai bisogni effettivi del territorio in un contesto frammentato, fragile e in continuo cambiamento.

Non in fondo ma alla base di tutto questo c’è il bisogno di coltivare la spiritualità laicale. Desideriamo che l’Ac sia un luogo in cui, attraverso la cura costante della fede e l’affidamento profondo all’azione allo Spirito, ogni persona riesca a trovare i mezzi che permettano di guardare agli ostacoli, non come limiti, ma come sfide di crescita e testimonianza. In questo senso, la stagione sinodale che stiamo attraversando è particolarmente proficua perché ci abitua a fare l’esercizio di camminare insieme sotto la guida dello Spirito. 

Questi ingredienti, insieme alla generosità di tanti soci nel mettersi a disposizione con spirito di gratuità nei diversi servizi di responsabilità per il prossimo triennio, caratterizzano questo cammino assembleare che vorremmo consegnare a papa Francesco e a tutta la Chiesa in A Braccia aperte, l’incontro nazionale del prossimo 25 aprile. 

*segretario generale di Ac

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Boccate di ossigeno all’Azione cattolica

Gio, 29/02/2024 - 07:00

Finiti gli anni dell’Acr (Azione cattolica dei ragazzi) non ebbi molti dubbi, e iniziai a frequentare l’Azione cattolica. In realtà la mia parrocchia offriva anche l’alternativa della Gi.Fra., la Gioventù Francescana, ma era con l’Ac che potevi diventare animatore, e questo per me fu decisivo.

All’epoca ero al ginnasio, e imparai abbastanza presto che non era opportuno sbandierare questa mia appartenenza. Non si trattava più delle prese in giro grossolane delle medie perché avevo i piedi a banana, a quelle lì tutto sommato ci avevo fatto il callo. Non ero però pronto a certe frecciatine, sottili e taglienti, di qualche compagno o compagna, e soprattutto di qualche docente, sul mio essere cattolico. «Basabanchi» era l’appellativo meno scottante. Una volta dovetti portare al professore della prima ora la giustificazione per un’assenza: la motivazione, scritta nella grafia ordinata di mio padre era: «Adunata Azione cattolica». Il professore lesse, poi mi chiese se mi avevano fatto cantare O bianco fiore. Io non sapevo di cosa stesse parlando, e rimasi zitto. Ma il tono della domanda presupponeva una risata, e tra i banchi ci fu qualche risolino. Non pago, mi chiese se sapevo la differenza che corre tra basilica e cattedrale. Di nuovo scena muta da parte mia, di nuovo risatine tra i banchi.

Non biasimavo i miei compagni, tiravano a campare, e anch’io, al loro posto, avrei assecondato le richieste implicite del docente. Mi stupiva invece capire che l’insegnante stava facendo dell’ironia su di me. Mi feriva, certo, ma prima di tutto mi stupiva, perché non avrei mai pensato che un adulto potesse perdersi dietro a queste cose. Mi sbagliavo. Ho conosciuto parecchie persone che si sono allontanate della fede, o comunque dalla pratica religiosa, negli anni delle scuole superiori. Alcune di queste persone, nel dirmi come a un certo punto avevano «aperto gli occhi», si dicevano addirittura grate ai loro professori per averle «svegliate fuori».

Non credo di aver mai corso questo rischio, e non perché la mia fede fosse particolarmente salda, tutt’altro, il dubbio è sempre stato un compagno fedele. Molto semplicemente: all’Ac stavo bene, avevo degli amici, avevo, talvolta, l’impressione di fare del bene agli altri. A scuola me la facevo sotto. Il momento del gruppo settimanale mi offriva delle boccate di ossigeno, ma, e me ne resi conto solo anni dopo, non era tanto per quello che facevamo. Si discuteva di tematiche adolescenziali, talvolta si facevano progetti di piccolo volontariato. Cose belle, certo, ma non così rilevanti. La cosa davvero importante per me era lo stare assieme, lì.

Ricordo distintamente che un mattino, in quinta ginnasio, passando davanti alla cattedra alla quale stava seduta la professoressa di Greco, provai l’impulso naturale di genuflettermi. Mi dovetti trattenere, ma la cosa mi preoccupò parecchio. Non era stata una mossa ragionata, mi era venuta d’istinto. Paradossalmente quel fatto segnò un punto di maturazione. Sì perché se ci ripensavo, mi veniva da ridere: insomma, con tutta la paura che mi faceva, la prof non era certo Geova, mica poteva mandarmi le piaghe d’Egitto, al massimo poteva bocciarmi, che sì, era una cosa brutta, ma mica la più brutta del mondo.

Quel fatto cambiò un po’ le prospettive a mio favore, perché mi rendevo conto che la scuola, con le sue verifiche e i suoi voti, era in realtà una parentesi rispetto ai momenti nei quali mi sentivo realizzato, ossia l’incontro con i miei coetanei e, ancora di più, l’animazione dei bambini dell’Acr. Credo che sia stato quello una delle svolte più importanti della mia adolescenza.

Al sabato sera uscivo con gli amici, come tutti, ma al sabato pomeriggio giocavo con i bambini, spiegavo loro le regole, cercavo di farli ridere. Mica tutto rose e fiori, all’epoca ci buttavano dritti nella fossa dei leoni senza alcuna preparazione, e ho commesso tanti errori. Inoltre c’erano sì animatori più grandi di me con capelli lunghi e orecchino, che suonavano in gruppi musicali, facevano sport… Ma c’erano anche animatori che, per il loro linguaggio controllatissimo e l’abbigliamento castigatissimo, e l’insopprimibile capacità di attaccare delle lunghe omelie in ogni occasione, non andavano proprio a nozze con le prospettive di un adolescente. Mia madre diceva «li xe pì preti del prete», e così io e alcuni amici li avevamo definiti «iperpreti». Ma non provavo antipatia nei loro confronti, anche se possibilmente mi tenevo alla larga da loro: erano parte del contesto, interpretavano un ruolo previsto, riconosciuto, che dava stabilità al fondale su cui ci muovevamo. Insomma al gruppo ci stavo bene, e frequentarlo mi permetteva di vivere meglio le fatiche del ginnasio.

L’aspetto centrale per me non era la preghiera: certo c’erano i momenti di raccoglimento e spiritualità, ma li vivevo come la preghiera prima dei pasti, una cosa da fare velocemente mentre con lo sguardo e le narici sei già agli spaghetti fumanti davanti a te. La cosa bella per me era lo stare assieme, e il poter dire la nostra, anzi, l’essere incoraggiati a farlo, cosa che a casa e a scuola non sempre riusciva facile.

Ma c’era una differenza ancora più importante tra il ginnasio e il gruppo dell’Ac: come credo sia capitato a tanti studenti liceali, anch’io mi sono dovuto sorbire, in più occasioni durante i cinque anni, discorsi mirati a inculcarci la convinzione di essere una sorta di «crema» della società. Tra di noi sarebbero emersi i «quadri» dirigenti del Paese, noi eravamo «il meglio» della scuola italiana. Le parole virgolettate sono esattamente quelle usate da alcuni tra i miei insegnanti.

Per fortuna avevo ogni settimana un contraltare che mi teneva coi piedi per terra: al gruppo c’erano ragazze e ragazzi impegnati in ogni percorso scolastico. Uno dei miei più cari amici dell’adolescenza è stato bocciato per due anni di fila all’istituto professionale, e non mi sono mai sentito «superiore» a lui, anzi: quando prendevo cinque mi pareva che mi crollasse il mondo addosso, lui passava attraverso i suoi insuccessi scolastici con spavalderia e noncuranza, e la cosa mi suscitava invidia. Beh, all’epoca lui aveva la ragazza e io no. Ecco, anche questo mi suscitava invidia.

Oltre alle aule del liceo, l’unica altra occasione nella quale mi è stato fatto un discorso che aveva a che fare con «la crema» e con «il meglio» è stato dopo la visita militare, quando noi abili «di prima» fummo raccolti in una saletta appartata della caserma, e un ufficiale, dopo averci fatto scattare sull’attenti, ci fece un lungo discorsetto su quanto fossimo importanti per le forze armate.

Da qualche parte devo aver tenuto le tessere dell’Ac, ma devo dire che gli aspetti strutturali dell’associazionismo, le adunate diocesane o vicariali non mi interessavano più di tanto. Per me, e credo per molti ragazzi della mia età, l’Ac era il posto degli amici, le due ore a settimana in cui tirare il fiato, parlare tra pari, stare con degli adulti che ti accompagnavano senza giudicarti. Due ore in cui non avere paura. Non è cosa da poco quando hai quindici anni.

Articolo pubblicato su L’Osservatore Romano del 24 febbraio 2024

Il sito ufficiale di Paolo Malaguti

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Con i manganelli non c’è futuro

Mar, 27/02/2024 - 11:07

Non c’era niente da capire. Vogliamo partire dicendo questo: la responsabilità in merito alle vicende che hanno visto coinvolti gli studenti e le forze dell’ordine a Pisa e Firenze è chiara e quanto abbiamo visto e sentito attraverso le testimonianze dei presenti ci porta a esprimere la nostra ferma e condivisa condanna per l’accaduto. L’esercizio del diritto a esprimere la propria opinione in maniera pacifica non può in alcun modo rappresentare un pretesto per la violenza, soprattutto da parte di chi è chiamato a garantire la sicurezza di tutti i cittadini. 

Con i manganelli non c’è futuro

In questi giorni sono state dette molte cose, molti si sono stretti attorno agli studenti e alle studentesse vittime di quanto accaduto. Su tutti il Presidente della Repubblica ha ricordato che «con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento»: parole che rispecchiano ancora una volta con forza e lucidità il nostro pensiero. 

Richiesta di giustizia, impegno nell’educazione

Ma oggi, che è cominciata una nuova settimana e tutti andiamo avanti con le nostre vite, cosa ne sarà di quanto successo? Viviamo in un mondo in cui il consumismo sfrenato ha divorato anche l’informazione e già oggi nelle nostre bolle social e sociali degli ingiustificati scontri di Pisa e Firenze sentiamo parlare meno.

Domani saranno spariti dalle notizie, oppure verranno relegate al sesto servizio del Tg o a un trafiletto di pagina ventiquattro di un quotidiano. 

È per questo che scriviamo proprio ora, perché desideriamo rilanciare e rileggere quanto successo, perché dopo la rabbia e l’indignazione resti qualcosa: richiesta di giustizia, assunzione di consapevolezza, impegno nell’educazione.

Il nostro Appello

Vogliamo cogliere l’occasione di queste vicende per fare un appello come giovani all’Italia, e a chi ha la responsabilità politica dei fatti degli ultimi giorni. 

Chiediamo, intanto, che non ci si dimentichi di quanto successo e che si continui, insieme, a chiedere giustizia.

Chiediamo giustizia perché chi detiene il monopolio dell’uso legittimo della forza deve essere pienamente consapevole della responsabilità che esercita. 

Occorre assumere la consapevolezza che qualsiasi giustificazione di fronte all’accaduto (e in questo caso affermiamo con certezza che non ce ne sia nemmeno una) perde di significato, perché la democrazia è l’unico sistema di governo in cui la forma dell’esercizio del potere è parte integrante del suo contenuto e della sua sostanza.

Chi ha sbagliato, paghi. Perché con i manganelli non c’è futuro

Allora oggi condanniamo chi, anziché custodire l’ordine pubblico, l’ha turbato, commettendo un atto intollerabile che deve essere sanzionato.

Occorre che il nostro Paese si assuma l’impegno di mettere in discussione il sistema educativo anche delle forze armate. Il loro addestramento, infatti, deve tornare alle fondamenta della democrazia ed essere in grado di sapere respingere psicologicamente e fisicamente qualsiasi forma illegittima di esercizio della forza.

Sarà necessario che questo impegno educativo non venga utilizzato come bandiera di posizionamento partitico ma come serio impegno per il futuro del Paese. 

Grazie a chi era in piazza

Ai giovani feriti, doloranti, spaventati dalla violenza subita, rivolgiamo la nostra vicinanza, il nostro incoraggiamento e il nostro ringraziamento.

Sì. Ai nostri coetanei che erano in piazza vogliamo dire grazie perché ci hanno ricordato quanto sia importante esprimere pacificamente le proprie idee, nonostante tutto. Auspichiamo che questo evento non sconforti il loro e il nostro desiderio di partecipazione e di giustizia, affinché possano essere esempio per la nostra generazione verso un continuo impegno per un mondo più giusto e umano. 

L’Italia riscopra sempre più il senso dell’essere comunità

Sogniamo un’Italia in cui la partecipazione dei giovani venga accompagnata dalle Istituzioni, un’Italia in cui lo Stato non svigorisca mai il pensiero critico che fa discernere e prendere una posizione, aiutando a scegliere da che parte stare.

Sogniamo un’Italia che riscopra sempre più il senso dell’essere comunità, in cui giovani e adulti, siano capaci di vibrare per la sofferenza del mondo. Oggi più che mai occorre sentire la responsabilità per il bene di ogni essere umano. La violenza non è e non deve mai essere l’ultima parola, e noi ci crediamo ancora.

*Emanuela Gitto, Lorenzo Zardi, Carmen Di Donato, Tommaso Maria Perrucci, Lorenzo Pellegrino, Ludovica Mangiapanelli

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Fra vangelo e umano

Lun, 26/02/2024 - 10:05

L’anniversario dell’evento/convegno passato alla storia come “sui mali di Roma”, ma che in realtà intendeva riflettere sulla responsabilità dei credenti nei confronti delle attese di carità e giustizia della diocesi del Papa, sta costituendo un pre-testo, onde poter avviare un processo di ascolto, dialogo e confronto su tematiche particolarmente significative e che, insieme a motivi di preoccupazione per le loro criticità, possono offrire anche motivi di speranza.
Dopo un momento introduttivo, celebrato in vicariato il 19 febbraio scorso, che ha visto come protagonisti Andrea Riccardi, Giuseppe De Rita, Luigina Di Liegro e Giustino Trincia, si intraprenderà un cammino, a scadenza mensile, con assemblee in diverse zone periferiche della città e in luoghi significativi intorno alle tematiche della scuola, della sanità, della casa e del lavoro. Il tutto si concluderà in autunno con un momento sintetico a carattere culturale, nella basilica di San Giovanni in Laterano, dove si sono svolte riunioni di carattere generale del convegno di mezzo secolo or sono.
In tal modo si intende attuare quanto papa Francesco in più occasioni ha sottolineato: piuttosto che celebrare eventi e occupare spazi, bisogna attivare processi.

Una Chiesa che sa immergersi nei processi della città

A tal proposito, dall’incontro del 19 febbraio è emersa la necessità per la Chiesa di Roma di immergersi nei processi in cui è coinvolta la città nelle sue diverse componenti, piuttosto che farsi interlocutrice di istituzioni socio-politiche, capaci di promettere, ma molto raramente di mantenere, propositi di soluzione delle problematiche.
Le iniziative sono pensate e coordinate in un tavolo di lavoro, che vede partecipi la Caritas romana, la fondazione don Luigi Di Liegro, la comunità di S. Egidio e i diversi servizi pastorali del vicariato che si occupano delle singole tematiche da affrontare. L’intenzione è quella di proporre il coinvolgimento dell’intera comunità diocesana in un cammino certamente arduo, ma anche decisamente ricco di fascino, in modo che non siano le singole realtà ad accaparrarsi le iniziative, ma si attui fra loro un’autentica sinergia, nello spirito della sinodalità.

Il carattere di “Chiesa locale” della diocesi di Roma

Come ho avuto modo di sottolineare in diverse occasioni, e in particolare nella conferenza stampa che ha preceduto il primo evento e in una lettura teologica proposta sulla rivista on line “Settimana news” (https://www.settimananews.it/chiesa/cinquantanni-dal-convegno-sui-mali-di-roma/), il carattere di “Chiesa locale” della diocesi di Roma, che rischia di diluirsi nei meandri dell’universalismo, emerge con chiarezza (e forse per questo è risultato a molti presbiteri e vescovi ostico) nella riforma che è stata avviata con la costituzione apostolica In ecclesiarum communione, promulgata il 6 gennaio 2023 e che con notevole fatica si sta cercando di attuare.
Le obiezioni, prevalentemente di carattere giuridico, avanzate nei confronti delle scelte che questo documento propone, svaniscono di fronte alle istanze innovative, che si possono scorgere nel testo e in particolare riguardo al ruolo dei vescovi (vicegerente ed ausiliari), cui viene riconosciuta per il territorio cui sono preposti (e per il vicegerente per l’intera diocesi) potestà di giurisdizione. Si tratta di un notevole passo avanti anche rispetto agli esiti di febbraio ’74. In questo senso il cammino intrapreso nell’attuazione della riforma e queste iniziative potranno, e direi dovranno, risultare paradigmatici per l’intera comunità ecclesiale a livello mondiale e nazionale.

Esempio di Partecipazione e sinodalità

Questa opzione fondamentale esige la comunione fra i vescovi, che dovrebbe esprimersi nel consiglio episcopale e richiama la sinodalità. Questa attitudine il convegno di cinquant’anni fa l’ha vissuta pienamente, vedendo tra gli altri la partecipazione attiva di personaggi quali Luciano Tavazza, Pietro Scoppola, l’abate Franzoni, don Roberto Sardelli, Vittorio Bachelet ecc. La grande libertà e onestà intellettuale che si è espressa in quella occasione è stata motivo di diffidenza sia da parte delle forze politiche che all’epoca governavano la città, sia da parte della Segreteria di Stato, la cui figura determinante era il sostituto Giovanni Benelli.

I mali di ieri e di oggi da contrastare con spirito profetico

La determinazione del cardinale Ugo Poletti, che si avvaleva della collaborazione di don Luigi Di Liegro e padre Clemente Riva, con il sostegno di Paolo VI, ha consentito non solo la celebrazione di un evento, ma l’assunzione di uno stile di dialogo, discussione, ascolto, successivamente presto dimenticato o archiviato.
Nella famosa opera Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa il beato Antonio Rosmini indicava, fra l’altro, nella separazione del clero dal popolo (prima piaga) e nella divisione dei vescovi fra loro (la piaga letale del costato) due profonde criticità o “mali” della comunità credente che dobbiamo ahinoi riscontrare particolarmente attuali e che richiedono impegno di riflessione e di azione onde non rassegnarsi a quella che più volte nell’incontro del 19 febbraio è stata denominata la “cultura del declino”, che siamo chiamati a contrastare con rinnovato entusiasmo e spirito profetico.

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Una testimonianza «da scrivere col sangue»

Dom, 25/02/2024 - 07:00

Gli studi più o meno recenti che hanno posto al centro della loro indagine la partecipazione dei cattolici alla Resistenza concordano nell’affermare che il contributo offerto dal laicato cattolico organizzato al movimento di liberazione fu di assoluto valore. Visto che, come dimostrano anche cifre e testimonianze raccolte, naturalmente per difetto, nella documentazione archivistica, decisamente considerevole fu il numero di soci, socie e assistenti che si spesero attivamente nella lotta partigiana e che persero la vita nel corso dei mesi di occupazione nazifascista.

Per giustizia e per amore

Se dopo la ratifica dell’armistizio dell’8 settembre in molti contesti divenne pressoché impossibile per l’Azione cattolica continuare a svolgere ufficialmente le proprie attività e rispettare gli appuntamenti associativi senza cadere nella perniciosa vigilanza nazifascista, i soci si impegnarono per rinsaldare i vincoli associativi e per consolidare i legami assicurati dalla comune adesione agli stessi ambienti e ai medesimi valori culturali e religiosi. In diversi casi, a dare al loro processo decisionale una spinta verso l’opzione armata contro l’occupante fu proprio questa nuova rete associativa .
L’esponente democristiano Benigno Zaccagnini, ricordando la sua esperienza e quella del gruppo che ruotava intorno alla sua carismatica figura, delineava brevemente i dubbi e le paure che avevano colpito molti soci dopo l’8 settembre: «Cominciammo a tessere le nostre file […]. Ma quante discussioni! Potevamo essere dei ribelli? Era lecita la rivolta? Era lecita quella particolare forma di guerra che era la guerra partigiana? Noi non potevamo agire né per vendetta, né per calcolo, né per odio, ma solo per giustizia e per amore. Si poteva entrare in quella bufera scatenata di vendetta, di delazioni, di sabotaggi, di distruzioni con la divisa dell’amore? Si poteva essere, come la preghiera diceva, ribelli per amore? La necessità dell’azione, dell’organizzazione, dei collegamenti soverchiavano spesso in pratica questi nostri tormenti, ma le domande ci tornavano insistenti in fondo alla coscienza» (La resistenza fu sacrificio e rischio affrontati per giustizia e amore, in «Ricerca», 11 (1955), 8-9, pp. 1-2).

La tela associativa e l’opera nella Resistenza

Il dato della comune militanza nell’associazione, quindi, fu un elemento che alcuni soci utilizzarono come grimaldello per forzare la propria coscienza e superare i propri indugi ad entrare tra le file delle formazioni partigiane. I gruppi di giovani legati dalla condivisione di spazi, legami, educazione e riflessioni propri della formazione ricevuta nei circoli dell’Azione cattolica vennero strutturando, in molti contesti, delle vere e proprie collettività ristrette che reagirono in maniera consequenziale all’elaborazione fatta tra la cerchia degli aderenti. La tela associativa svolgeva dunque una funzione protettiva verso il singolo e forniva un forte e preciso elemento identitario a cui aggrapparsi per iniziare (o continuare) la propria opera nella Resistenza.
In questo senso, sembra opportuno dare ulteriore rilevanza a tutte quelle testimonianze di adesione ideale verso l’associazione che molti giovani decisero di fissare negli ultimi scritti al momento della loro condanna a morte o, addirittura, poco prima di morire in battaglia. L’ultimo atto di lealtà, compiuto di fronte al sacrificio più estremo, era in fondo un modo per sottolineare quella comunanza di valori che essi ritennero di aver assorbito durante gli anni di formazione nei circoli associativi della loro città e di aver ricondotto, riadattandoli alle esigenze dei tempi, anche nel loro impegno nella lotta contro l’occupante nazifascista.

Ti ringrazio per avermi chiamato a far parte dell’Azione Cattolica

Tra le storie più note, in questo senso, vi fu quella di Luigi Pistoni, detto Gino, nato a Ivrea il 25 febbraio 1924 e cresciuto nel circolo Giac «Contardo Ferrini» interno al collegio «San Giuseppe» di Torino. Fin dalla giovinezza, distintosi per capacità e dedizione, venne chiamato a collaborare con il Centro diocesano della Gioventù cattolica di Ivrea. Del quale divenne successivamente segretario, avendo la possibilità di lavorare a stretto contatto con il presidente Giovanni Getto, che diverrà il suo primo biografo nel dopoguerra, e l’assistente don Mario Vesco.
Non ancora ventenne, nel gennaio del 1944 venne richiamato per il servizio militare da uno dei bandi di reclutamento emessi dalla Rsi. Prima di recarsi in caserma per arruolarsi nella Guardia nazionale repubblicana ebbe modo di partecipare ad Asti al ritiro regionale della Giac per i dirigenti piemontesi, dove conobbe Carlo Carretto che lo invitò a prendere parte alle attività della Società operaia, un sodalizio di speciale consacrazione laicale fondato nel corso del 1942 da Luigi Gedda, nella quale entrò il 7 aprile di quello stesso anno, in occasione del Giovedì Santo. Nella preghiera che compose per l’ingresso, tra l’altro, ebbe a scrivere: «Ti ringrazio per avermi chiamato, due anni fa, a far parte dell’Azione Cattolica, e di aver dato alla mia vita, prima di allora veramente vuota, uno scopo che la rendesse degna di essere vissuta».

Il no all’esercito repubblichino e la lotta partigiana

Dopo un brevissimo periodo di formazione militare e aver prestato servizio al distretto di Ivrea dal 30 aprile al 26 giugno del 1944, decise di abbandonare il proprio posto tra le fila dell’esercito repubblichino perché contrario ai valori che esso rappresentava e propagandava e di raggiungere le formazioni della Resistenza. Si unì quindi al battaglione «Caralli» della 76ª brigata della VII divisione Garibaldi, assumendo il nome di battaglia di «Ginas» e operando nella zona del Mombarone.
Il 25 luglio, mentre partecipava a un’azione nella valle di Gressoney, il suo reparto dovette ingaggiare un duro combattimento contro le truppe nazifasciste che ripiegavano dopo aver fatto saltare il ponte di Tour D’Héreraz. Durante la battaglia, mentre i suoi uomini cominciarono ad arretrare, Pistoni si attardò per aiutare un milite della Rsi ferito. Nel conflitto a fuoco che ne scaturì, una scheggia di mortaio lo raggiunse e gli recise l’arteria femorale mettendo fine alla sua esistenza dopo pochi minuti di agonia. Nel brevissimo lasso di tempo che ebbe a disposizione in attesa della morte, Gino volle scrivere sulla tela del suo tascapane un ultimo messaggio con il sangue che perdeva copiosamente: «Offro mia vita per Azione cattolica e per Italia, Viva Cristo Re».

La consapevolezza di dover operare per la salvezza del prossimo

Si trattò, forse, di un caso limite in cui la consapevolezza di dover operare per la salvezza del prossimo spinse al sacrificio personale per dare aiuto al proprio nemico sul campo. Ma fu, in verità, la rappresentazione di quello che significava per un cattolico scendere in battaglia dimostrandosi pronti persino a morire pur di non derogare al sentimento di pietà verso il prossimo.
La sua testimonianza in punto di morte getta ulteriore luce anche sull’apporto dato dalla più grande associazione laicale presente nel paese in quel periodo, nonché l’unica ufficialmente attiva in Italia fuori dalle organizzazioni fasciste, al processo che portò i suoi aderenti a definire una specifica coscienza resistenziale anche attraverso un costante e determinante richiamo a quanto appreso nei circoli associativi. Non era raro, infatti, che i soci, anche negli ultimi momenti che precedevano la loro morte in battaglia o nei campi di concentramento, sentissero il bisogno di dover esprimere ai cari la propria riconoscenza per quanto ricevuto negli anni trascorsi nei circoli dell’Azione cattolica o il desiderio di dare un ultimo segnale della propria appartenenza all’associazione.

Gino Pistoni: un uomo di Ac, un “ribelle per amore”

Del sacrificio di Gino Pistoni venne fatta memoria anche nel dopoguerra. Nella stampa associativa, dove venne ricordato come uno degli assertori più convinti della necessità di combattere senza odiare il nemico, anche fino al sacrificio della propria vita. Luciano Tavazza ne descriveva in questo modo gli ultimi istanti di vita: «Distese il sacchetto su una pietra, fino a farne un bianco fazzoletto, intinse un dito nella ferita aperta e cominciò a scrivere col suo sangue: “Offro mia vita per Azione Cattolica. Italia”. Gli si annebbiavano gli occhi. Aggiunse: “Viva Cristo Re” e si accorse d’aver scritto per traverso, malamente, ma non gli importava più nulla.
Aveva scritto l’ultima sua lettera, una delle tante della resistenza, senza una parola di odio. Perciò aveva usato il verbo “offro”, perciò era sceso al ponte a salvare il “marò”, perciò aveva scelto la via dei monti e della libertà» (Gino Pistoni. Caduto per la libertà, in «Il Vittorioso», 18 (1954), 17, p. 6). Un “ribelle per amore”, dunque, che preferì scegliere l’estremo sacrificio pur di dare testimonianza dei valori e insegnamenti introiettati anche nel percorso formativo e di militanza in Azione cattolica.

Per conoscere e approfondire il contributo dato alla Resistenza dai soci, dalle socie e dagli assistenti di Azione cattolica si consiglia il portale Biografie Resistenti. Lanciato dall’Isacem-Istituto per la storia dell’Azione cattolica e del movimento cattolico in Italia Paolo VI il 25 aprile del 2020, in occasione del 75° anniversario della Resistenza.

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